Due soldati britannici, durante la Prima guerra mondiale, devono consegnare un dispaccio il cui contenuto potrebbe salvare la vita a migliaia di commilitoni.
Due soldati britannici, durante la Prima guerra mondiale, devono consegnare un dispaccio il cui contenuto potrebbe salvare la vita a migliaia di commilitoni.
Fra i film più attesi della stagione, 1917 si pone come il discendente digitale di opere quali Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick e Salvate il soldato Ryan (1998) di Steven Spielberg. Del primo, oltre al periodo di ambientazione, riprende l'impostazione visiva delle lunghe carrellate attraverso le trincee; del secondo, invece, la struttura narrativa in forma di missione e L'adrenalina di certe scene collettive. Il regista e sceneggiatore San Mendes (American beauty, 1999; Skyfall, 2012) prende spunto da episodi raccontati dal suo stesso nonno e scegliere come anno di collocazione degli eventi il 1917, il più tragico e sanguinario di tutto il primo conflitto mondiale. L'intenzione di immergere lo spettatore in un racconto lineare, frenetico e realistico viene pienamente rispettato. Il film in questione, secondo più fonti, è strutturalmente paragonabile a una simulazione virtuale o a un videogioco. Analizzandolo comparto per comparto, vedremo come tale definizione, tutt'altro che negativa, sia adeguata.
La regia lavora, qui più che mai, a stretto contatto con la direzione di fotografia a cura del premio Oscar Roger Deakins (Il grande Lebowski, 1998; Blade Runner 2049). La macchina da presa ha il compito di non abbandonare mai i personaggi principali (uno solo, nella seconda metà), aprendo e chiudendo il film con la stessa immagine di quiete alla luce del sole e conducendo lo spettatore in un inferno il cui scorrere del tempo è marcato unicamente dalla luce. Che, facendosi sempre più cupa e livida man mano che i due soldati avanzano, lascia spazio alle tenebre infuocate del villaggio in fiamme: a livello di composizione cromatica e dell'immagine, con audaci movimenti di attori in silhouette, quest'ultima è forse la scena di livello tecnico più alto. La fotografia, in definitiva, oltre che elemento visivo è anche indicatore di racconto per un film che non lascia mai i propri protagonisti: è qui la prima somiglianza con il videogioco di simulazione, in cui l'inquadratura (quando non è soggettiva) ruota sempre attorno al player passando di ambientazione in ambientazione. Fondamentale, a tal proposito, anche la costruzione delle scenografie di Dennis Gassner, premio Oscar 1992 e collaboratore abituale di Mendes: se nel videogioco il mondo di svolgimento della trama è composto da ambienti giustapposti e dotati di una breccia da attraversare, fra trappole e passaggi obbligati, anche la terra di nessuno rappresentato nel film ha le stesse caratteristiche. Tuttavia, più che nelle ambientazioni di pianura, piuttosto lineari per quanto pittoresche, Gassner dà il suo meglio nel ricreare corridoi di trincee che si adattano con meno forzature ai movimenti di macchina: nuovamente, come in un videogame, è infatti nel movimento come marca temporale la cifra principale del film, nonché il maggior impegno profuso dallo staff tecnico.
Mendes supera, con la scelta di rendere il film in due finti piano-sequenza di circa un'ora ciascuno (l'unico stacco dichiarato coincide con lo svenimento del protagonista, che consente di far coincidere tempo narrato e tempo reale), quella perizia di stile e di capacità viste in Birdman (2004) di Alejandro González Iñárritu. Con tale decisione di montaggio, consentita da un ennesimo premio Oscar quale Lee Smith (Inception, 2010; Dunkirk, 2017), lo spettatore riesce a essere calato definitivamente nello scenario, percependo a livello emotivo tensione e adrenalina.
Per quanto l'occhio allenato riesca a cogliere dove effettivamente sono avvenuti i tagli di montaggio, la fluidità dei raccordi unita al ritmo narrativo riesce a mascherarli al meglio.
Per questo motivo bisogna anche lodare l'impegno degli attori, in particolare dei principali, nel reggere intere sequenze di recitazione senza stacchi: visto l'estremo dinamismo delle quali, è quasi perdonabile la pressoché assenza di empatia trasmessa. Quest'ultima è dovuta, in parte, anche alla modalità di scrittura adottata.
La sceneggiatura, scritta assieme all'esordiente Krysty Wilson-Cairns, in sé non ha il compito di essere particolarmente elaborata, ma di adattarsi all'alta richiesta di efficacia tecnica e spettacolarità del prodotto complessivo. Tuttavia va sottolineato come l'arco narrativo si componga, essenzialmente, di diversi quadri giustapposti in un crescendo di tensione. Se ciò porta a una ulteriore somiglianza con le sezioni e le sfide dei videogiochi, non consente un approfondimento di personaggi e background troppo sviluppato. 1917 è un film di guerra, non di soldati: l'agente passa in secondo piano rispetto all'atto, la riflessione rispetto alla tensione. La parabola personale, inesistente, cede al rischio collettivo, da leggersi come posta in gioco, come scommessa di cui si analizzano le dinamiche più che gli effetti. Più che difetto, si tratta pertanto di una caratteristica propria dell'idea di partenza, da un lato limitante e dall'altro in grado di approfondire la tecnologia e le potenzialità del mezzo di ripresa. Dove invece si notano alcune carenze, è nel montaggio audio (buono ma inferiore qualitativamente del complesso) e nel realismo di alcune situazioni e scenari.
A chiudere questo lungo parallelo fra 1917 e il medium con cui dialoga, la simulazione, si nota come le musiche di Thomas Newman (Tolkien, 2019) rispondano nuovamente all'esigenza di narrare per ostacoli, per comparti giustapposti da superare: placide nei pochi momenti di stallo, capaci di anticipare con un aumento delle strumentazioni i pericoli e i momenti di passaggio che toccano i protagonisti. Che, come si è sottolineato, non sono turning point psicologici o morali ma strategici, come si deve in un film che cerca di confrontarsi in modo nuovo, forse più freddo ma a suo modo emotivamente coinvolgente, con il proprio pubblico.
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