Le storie di alcuni personaggi dalle vite compromesse si incrociano in un susseguirsi di causalità e incidenti legati al tema della morte.
Le storie di alcuni personaggi dalle vite compromesse si incrociano in un susseguirsi di causalità e incidenti legati al tema della morte.
Alejandro González Iñárritu (Birdman, 2014; Revenant – Redivivo, 2015) firma il suo terzo lungometraggio da regista, ideandone il soggetto assieme al collaboratore Guillermo Arriaga, che ha scritto per l'autore messicano la cosiddetta trilogia della morte. Della quale 21 grammi è il secondo capitolo. La morte è presente fin dal titolo, che fa riferimento al supposto peso dell'anima che, di conseguenza, marca la differenza fra un corpo vivente e uno che ha appena spirato. Morte, peraltro, declinata in un vero e proprio inventario di possibilità: quella inflitta, causata a se stessi o ad altri, occorsa; incidentale o intenzionale; improvvisa o in agonia. Non si può parlare di morte senza innervarla dell'altra grande caratteristica dei mortali, l'interrelazione intesa come responsabilità verso l'altro: il film è costruito, sia nella struttura che negli intrecci, come una tela di destini incrociati. La colpa, il rimorso, è l'altro filo rosso che lega i personaggi: non a caso permea il film un senso di religioso fanatismo bruscamente alternato a un disincantato ateismo. Se il tema, verrebbe da dire, è tanto antico quanto la narrativa autoriale stessa (dove per “autoriale” si intende riconducibile almeno a una scuola, es. la tragedia greca), i modi e le iniziative di espressione marcano l'originalità del film.
Come si può già evincere, il film è ambizioso nel tentativo di proporre una narrazione a più strati e multi-focale di una sequenza di eventi già di per se intricati. Un espediente che risale a Rashomon (1950) di Akira Kurosawa e prosegue fino ai recenti Mademoiselle (2016) di Park Chan-Wook e Cena con delitto (2019) di Rina Johnson. Dal punto di vista della resa filosofica, la struttura funziona in modo ottimale: il labirintico e frammentato ripetersi di eventi, avanti e indietro nel tempo, mette lo spettatore nelle condizioni di dover partecipare attivamente al dramma e sentirsi parte dell'imprevedibilità/imperscrutabilità delle vite narrate. La godibilità narrativa, purtroppo, si va un po' a perdere a partire dalla seconda metà , quando il meccanismo di rimandi e riflessi è già stato compreso da chi guarda. Quanto alla scrittura dei personaggi, bisogna dire che non tutti sono allo stesso livello: il personaggio di del Toro è sicuramente meno ambiguo ma più superficiale degli altri, anche a livello di background. Tuttavia, i conflitti interiori che portano allo sviluppo dell'azione sono in tutti i casi ben delineati.
La regia segue a ruota quelli che sono i pregi e i limiti della sceneggiatura. Iñárritu già dimostra una propensione allo sperimentare forme visive innovative che ben si possano accordare alla materia narrata. La macchina da presa a mano, veloce e rapida, unita al montaggio sincopato di Stephen Mirrione (premio Oscar 2001 per Traffic di Steven Soderbergh) sono senza dubbio opportune ed efficaci, per quanto l'interesse diminuisca con l'avanzare del film. Tuttavia, bisogna sottolineare nuovamente il grado di coinvolgimento che la freddezza (nel senso di medium freddo) registica riesce a ottenere. Più alterna, per quanto abbia momenti di estremi lirismo e drammaticità, la fotografia di Rodrigo Prieto (The Irishman, 2019). Non troppo accurato il trucco, che sarebbe altrimenti stato utile a districarsi nei diversi piani temporali. Va però notato come
il film non punti sulla spettacolarità o sul gioco di prestigio mostrativo alla Christopher Nolan, ma all'intensità drammatica.
A tal fine, la forza assoluta del film sono le interpretazioni: il cast è di primo livello e nessuno degli attori smentisce le aspettative, nemmeno del Toro per quanto alle prese con un personaggio non troppo felice.
21 grammi, opera enigmatica quanto il titolo che porta e quanto il tema che tratta, è un thriller drammatico che si appella all'intelligenza e alla profondità dello spettatore. Malgrado alcuni difetti, è la prova del prossimo talento di Iñàrritu, e della sua forte concezione di cinema come narrazione in cui la tecnica esprima al meglio il significato.
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