In un futuro indefinito, un astronauta viaggia verso i confini del Sistema solare per salvare la vita sulla Terra e ritrovare suo padre, scomparso anni prima.
In un futuro indefinito, un astronauta viaggia verso i confini del Sistema solare per salvare la vita sulla Terra e ritrovare suo padre, scomparso anni prima.
Fra i film più attesi dell'anno e presentato alla 76ma edizione del Festival di Venezia, Ad astra vuole porsi sostanzialmente tre scopi. In primis, risultare un riadattamento in chiave spaziale di Cuore di tenebra (1899) di Joseph Conrad e, di conseguenza, anche di Apocalypse now (1979) di Francis Ford Coppola, che al medesimo romanzo è ispirato. In secondo luogo, confrontarsi con i numerosi modelli precedenti di fantascienza sul viaggio solitario, da 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick a Interstellar (2014) di Christopher Nolan. Infine, il film vuole coniugare la spettacolarità degli effetti a un andamento riflessivo e filosofico di taglio chiaramente autoriale. Purtroppo, non tutti questi intenti ambiziosi risultano, nel complesso finale del prodotto, pienamente realizzati: al contrario, in più punti ne rovinano proprio l'esito.
James Gray (Two lovers, 2008; C'era una volta a New York, 2013) opta per una regia colta e fatta di riferimenti estetici, che rinuncia al realismo scientifico in favore del percorso esistenziale dei personaggi. L'assenza di gravità e l'atmosfera straniante consentono un buon uso espressivo della macchina da presa nei movimenti e nelle inquadrature. A titolo d'esempio, la scena della lotta in assenza di gravità fra padre e figlio andrebbe più letta come danza rituale e simbolica di passaggio, che non come plausibilità scientifica. Se effettivamente in varie accuratezze di sintassi Gray dimostra di aver centrato l'obiettivo, in altri si dimostra incerto sulla direzione da prendere. Il risultato è una creatura ibrida e confusa, a metà fra dramma e action, efficace solo in parte e poco scorrevole.
Gli stessi difetti della regia si notano, a livello più grave e macroscopico, nel soggetto e nella sceneggiatura. Il primo, rifacendosi ai modelli di cui sopra, sarebbe stato un'ottima occasione per raccontare la colonizzazione spaziale futuribile, le tematiche ecologiche e il potere della ricerca astronomica esattamente come Conrad raccontò il colonialismo in Congo e Coppola la guerra in Vietnam. È però un intento che resta a livello di intuizione, senza essere sviluppato. La scrittura, sempre per l'intenzione di essere introspettiva e filosofica, non riesce a sviluppare una vera trama. Al di là del viaggio siderale, che prende avvio per un motivo debole e non chiarito, le informazioni sul contesto psicologico del protagonista e del padre sono verbose e poco accurate. L'impressione è che non si riesca a empatizzare con i personaggi, spesso trascurati e senza motivazione (alla moglie è dedicato una sola battuta).
A nulla serve, quindi, l'espediente della voce interiore fuori campo, che risulta anzi fastidiosa e pretenziosa. I dialoghi, e quindi il significato, sono banali e non rendono giustizia alle soluzioni visive molto più espressive;
anche le informazioni sull'ambientazione, la missione e il mondo tecnologico in cui ci muoviamo vengono liquidate con insufficienza. Se lo scopo era concentrarsi sulla metafora più che sulla trama effettiva, tutti gli espedienti dialogici summenzionati non fanno altro che appesantire il film. I difetti di scrittura, ovviamente, si riversano pure sulle interpretazioni. Fra cui spicca in senso negativo proprio Brad Pitt, dal cui volto statico emerge la difficoltà e l'imbarazzo di recitare una parte piatta e monocorde, senza sostanza, senza climax. Infine, troppe situazioni (i gorilla, i pirati…), più che eventi di una trama che dovrebbe evolvere, hanno l'aspetto di deus ex machina inseriti per carenza di altri argomenti.
Tralasciando tali aspetti, che affossano il prodotto nel suo complesso, alla buona regia corre in aiuto una fotografia efficace, cupa e fantasmatica allo stesso tempo, a cura di Hoyte van Hoytema (Lei, 2013; Interstellar, 2014). Ottimo anche il montaggio sonoro di Mark Ulano (Titanic, 1997; Bastardi senza gloria, 2009), che calibra alla perfezione pieni e vuoti, sovrapposizioni di voci ed elementi macchinici, in una partitura di suoni e silenzi fondamentale per un film di questo genere. Basti pensare che First man (2018) di Damien Chazelle, altro evidente modello per Ad astra, ha vinto proprio l'Oscar per il montaggio sonoro, in quanto l'ambientazione fantascientifica e spaziale consente uno stravolgimento delle normali regole di propagazione del suono.
Pubblicizzato come film profondo e innovativo, Ad astra riesce quindi ad esserlo solo in parte, e solo per quanto riguarda il comparto visivo. Quanto alla scrittura e alle interpretazioni, è la prova che non è sufficiente avere dei modelli alti per fare altrettanto. L'impressione finale è quella di una grande occasione gravemente mancata.
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