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Federico Fellini

Amarcord | Recensione | Unpolitical Reviews

Scheda:

poster di Amarcord
Titolo Originale:
Amarcord
Regia:
Federico Fellini
Uscita:
18 dicembre 1973
(prima: 18/12/1973)
Lingua Originale:
it
Durata:
123 minuti
Genere:
Commedia
Dramma
Soggetto:
Federico Fellini
Tonino Guerra
Sceneggiatura:
Federico Fellini
Tonino Guerra
Fotografia:
Giuseppe Rotunno
Montaggio:
Ruggero Mastroianni
Scenografia:
Andrea Fantacci
Musica:
Nino Rota
Produzione:
Franco Cristaldi
Produzione Esecutiva:
Casa di Produzione:
Productions et Éditions Cinématographiques Françaises
F.C. Produzioni
Budget:
$0
Botteghino:
$0
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Redazione

9-

Pubblico

Redazione
Pubblico

Cast:

Titta Biondi
Bruno Zanin
Aurelio Biondi
Armando Brancia
Miranda Biondi
Pupella Maggio
Titta's Grandfather
Giuseppe Ianigro
Patacca
Nando Orfei
Oliva, il fratello di Titta
Stefano Proietti
Gradisca
Magali Noël
Il figlio del conte
Gianfranco Marrocco
Count Lovignano
Antonino Faà di Bruno
Aldina Cordini
Donatella Gambini
Cicco
Fernando De Felice
Gigliozzi
Bruno Lenzi
Ovo
Bruno Scagnetti
Naso
Alvaro Vitali
Teo
Ciccio Ingrassia
Candela
Francesco Vona
Giudizio
Aristide Caporale
Anwalt
Luigi Rossi
Biscein
Gennaro Ombra
Il cieco di Cantarel
Domenico Pertica

Trama:

Anticipazione

Trama Completa

La maturità di un giovane romagnolo di paese in epoca fascista, fra ricordi onirici e personaggi indimenticabili.

Recensione:

Amarcord è forse il film più personale di Federico Fellini, maestro di un cinema già di per sé legato a doppio filo con una particolare concezione del ricordo, dell'autobiografia, della narrazione. L'argomento e l'ambientazione farebbero pensare a una sorta di prequel de I vitelloni (1953): se in quest'ultimo è narrata la vaga indolenza di una maturità avanzata che non vuole compiersi, qui il percorso del protagonista, fra sogni erotici e avventure goliardiche, realizza un proprio arco evolutivo subito antecedente a quello dei personaggi del primo capolavoro felliniano.

È forse impossibile comprendere la portata e il significato reale del film per chi non avesse presente, almeno per sommi capi, la non-struttura e gli stilemi estetici, filosofici, dell'universo che Fellini se fa aver costruito per giungere a questo film come un punto d'arrivo, una summa poetica. In secondo luogo, di tutte le opere di Fellini è forse quello più ferocemente politica, in modo quasi paradossale per un regista che a parole si è sempre chiamato fuori dal cinema di argomento strettamente realistico: il Fascismo come colonizzatore collettivo dell'inconscio, strettamente connesso alla vita di provincia, è qui eviscerato nei suoi più potenti paradossi. Se del cinema e nella cultura italiane sono proprie due opposte tendenze, una volta alla strenua accusa del Regime che fu e una alla sua normalizzazione/assoluzione (attraverso una chiave ora umanistica, ora comica), Fellini sembra cercare una terza via: quella dell'ironico distacco del sogno, che permette di scavare verità insondabili e, forse proprio perché mai espresse esplicitamente, più stringenti.

Amarcord, già dal titolo (in romagnolo significa «Mi ricordo»), presenta una sceneggiatura che segue la discontinuità e la frammentazione di eventi passati che, solo in un insieme non lineare ma completo, assumono una vera struttura. A scrivere la vicenda, oltre allo stesso Fellini, il collaboratore abituale Tonino Guerra (che ha lavorato, fra gli altri, anche per Mario Monicelli e Michelangelo Antonioni). Il filo del ricordo e della figura centrale di un protagonista alterna-ego lega Amarcord a film quali La dolce vita (1960) e (1963). A questi due si aggiunge certamente, complice l'argomento, un tono meno intellettuale e più goliardico, nazional-popolare, folkloristico.


La nostalgia al centro del film si esprime al meglio ora nei flashback, ora nel tono volutamente incongruente e trasognato delle vicende narrate; non manca però una certa dose di realismo magico,


data dall'utilizzo di più caratteristi che attori celebri nel cast e dal ricorso al dialetto romagnolo. La vera punta di diamante del film è però la galleria di personaggi: mai stereotipi e tutti diventati archetipi in seguito, interpretati alla perfezione dagli attori, rimangono indimenticabili ritratti che al dramma dell'esistenza altrano la stralunata leggerezza del ricordo infantile. Gli episodi strazianti cedono il posto di continuo a quelli più comici (le scene a scuola, la tabaccaia), quelli più mistici (il pavone) a quelli più surreali (lo zio matto sull'albero, l'adunata con il volto di Mussolini) e sognanti (il passaggio del Rex).

La regia di Fellini si fa più calda e personale, in una Rimini interamente ricostruita a Cinecittà dallo scenografo Danilo Donati, due volte premio Oscar (di cui una proprio per i costumi di un altro film di Fellini, Il Casanova del 1976). Se le componenti tecniche sono forse più trascurate rispetto ad altri precedenti grandi produzioni di Fellini, il senso di voluto sbiadimento della memoria è assolutamente efficace. In tal senso lavora anche la splendida fotografia di Giuseppe Rotunno (Rocco e i suoi fratelli, 1960), abile a cogliere i colori delle quattro stragioni che scandiscono il film e a coniugare il realismo della parte storica della trama al misticismo surreale di quella onirica e personale (si segnala la sequenza della nebbia).

In un film dove a contare sono soprattutto i personaggi e i loro risvolti psicologici caratteristici, risultano fondamentali i costumi. Qui sempre a cura di Danilo Donati, risultano veramente iconici. Se il precedente Giulietta degli spiriti (1965) puntava alla rappresentazione di un'afosa decadenza alto-borghese, qui il modello è più quello della sagra carnevalesca di paese, dove ricchi e poveri, potenti e subalterni si confondo nella loro buffa esagerazione. Ad accompagnare tale carosello, le sempre azzeccate musiche di Nino Rota, forse qui nella sua migliore prova con Fellini (riprendendo, peraltro, il tema de La strada, 1954).

Amarcord, si è detto, è forse il film più personale di Fellini. Di sicuro, il più felliniano: è qui che la vita reale e il sogno, la quotidianità e il circo si confondo definitivamente, mostrando quella grande potenza del macchinario cinematografico che è poter mettere in dialogo sfere apparentemente così distanti.

A cura di Michele Piatti.
Pubblicato il 7 marzo 2020.

Pro:

  • Ricostruzione onirica e stralunata di un modo ormai perduto: la narrazione frammentata e il comparto tecnico ne esprimono al meglio l'aria di ricordo.
  • Galleria di personaggi e situazioni varie, ora strazianti ora comiche, sicuramente indimenticabili. Ad accompagnarli, le ottime musiche di Nino Rota.
  • Realismo magico dato da ottime interpretazioni di caratteristi e da un interessante approccio alla tematica storiografica del fascismo.

Contro:

  • Film felliniano per eccellenza, si consiglia la visione a chi ha già dimestichezza con le tematiche e lo stile del regista per poterlo apprezzare appieno.

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