La maturità di un giovane romagnolo di paese in epoca fascista, fra ricordi onirici e personaggi indimenticabili.
La maturità di un giovane romagnolo di paese in epoca fascista, fra ricordi onirici e personaggi indimenticabili.
Amarcord è forse il film più personale di Federico Fellini, maestro di un cinema già di per sé legato a doppio filo con una particolare concezione del ricordo, dell'autobiografia, della narrazione. L'argomento e l'ambientazione farebbero pensare a una sorta di prequel de I vitelloni (1953): se in quest'ultimo è narrata la vaga indolenza di una maturità avanzata che non vuole compiersi, qui il percorso del protagonista, fra sogni erotici e avventure goliardiche, realizza un proprio arco evolutivo subito antecedente a quello dei personaggi del primo capolavoro felliniano.
È forse impossibile comprendere la portata e il significato reale del film per chi non avesse presente, almeno per sommi capi, la non-struttura e gli stilemi estetici, filosofici, dell'universo che Fellini se fa aver costruito per giungere a questo film come un punto d'arrivo, una summa poetica. In secondo luogo, di tutte le opere di Fellini è forse quello più ferocemente politica, in modo quasi paradossale per un regista che a parole si è sempre chiamato fuori dal cinema di argomento strettamente realistico: il Fascismo come colonizzatore collettivo dell'inconscio, strettamente connesso alla vita di provincia, è qui eviscerato nei suoi più potenti paradossi. Se del cinema e nella cultura italiane sono proprie due opposte tendenze, una volta alla strenua accusa del Regime che fu e una alla sua normalizzazione/assoluzione (attraverso una chiave ora umanistica, ora comica), Fellini sembra cercare una terza via: quella dell'ironico distacco del sogno, che permette di scavare verità insondabili e, forse proprio perché mai espresse esplicitamente, più stringenti.
Amarcord, già dal titolo (in romagnolo significa «Mi ricordo»), presenta una sceneggiatura che segue la discontinuità e la frammentazione di eventi passati che, solo in un insieme non lineare ma completo, assumono una vera struttura. A scrivere la vicenda, oltre allo stesso Fellini, il collaboratore abituale Tonino Guerra (che ha lavorato, fra gli altri, anche per Mario Monicelli e Michelangelo Antonioni). Il filo del ricordo e della figura centrale di un protagonista alterna-ego lega Amarcord a film quali La dolce vita (1960) e 8½ (1963). A questi due si aggiunge certamente, complice l'argomento, un tono meno intellettuale e più goliardico, nazional-popolare, folkloristico.
La nostalgia al centro del film si esprime al meglio ora nei flashback, ora nel tono volutamente incongruente e trasognato delle vicende narrate; non manca però una certa dose di realismo magico,
data dall'utilizzo di più caratteristi che attori celebri nel cast e dal ricorso al dialetto romagnolo. La vera punta di diamante del film è però la galleria di personaggi: mai stereotipi e tutti diventati archetipi in seguito, interpretati alla perfezione dagli attori, rimangono indimenticabili ritratti che al dramma dell'esistenza altrano la stralunata leggerezza del ricordo infantile. Gli episodi strazianti cedono il posto di continuo a quelli più comici (le scene a scuola, la tabaccaia), quelli più mistici (il pavone) a quelli più surreali (lo zio matto sull'albero, l'adunata con il volto di Mussolini) e sognanti (il passaggio del Rex).
La regia di Fellini si fa più calda e personale, in una Rimini interamente ricostruita a Cinecittà dallo scenografo Danilo Donati, due volte premio Oscar (di cui una proprio per i costumi di un altro film di Fellini, Il Casanova del 1976). Se le componenti tecniche sono forse più trascurate rispetto ad altri precedenti grandi produzioni di Fellini, il senso di voluto sbiadimento della memoria è assolutamente efficace. In tal senso lavora anche la splendida fotografia di Giuseppe Rotunno (Rocco e i suoi fratelli, 1960), abile a cogliere i colori delle quattro stragioni che scandiscono il film e a coniugare il realismo della parte storica della trama al misticismo surreale di quella onirica e personale (si segnala la sequenza della nebbia).
In un film dove a contare sono soprattutto i personaggi e i loro risvolti psicologici caratteristici, risultano fondamentali i costumi. Qui sempre a cura di Danilo Donati, risultano veramente iconici. Se il precedente Giulietta degli spiriti (1965) puntava alla rappresentazione di un'afosa decadenza alto-borghese, qui il modello è più quello della sagra carnevalesca di paese, dove ricchi e poveri, potenti e subalterni si confondo nella loro buffa esagerazione. Ad accompagnare tale carosello, le sempre azzeccate musiche di Nino Rota, forse qui nella sua migliore prova con Fellini (riprendendo, peraltro, il tema de La strada, 1954).
Amarcord, si è detto, è forse il film più personale di Fellini. Di sicuro, il più felliniano: è qui che la vita reale e il sogno, la quotidianità e il circo si confondo definitivamente, mostrando quella grande potenza del macchinario cinematografico che è poter mettere in dialogo sfere apparentemente così distanti.
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