Un uomo di mezza età si invaghisce della giovane amica di sua figlia e riscopre una nuova giovinezza.
Un uomo di mezza età si invaghisce della giovane amica di sua figlia e riscopre una nuova giovinezza.
American Beauty segna l'esordio alla regia per Sam Mendes (Revolutionary Road, 2008 – 1917, 2019), regista britannico che con il suo primo lungometraggio è riuscito a conquistare l'Academy, aggiudicandosi ben 8 candidature e 5 prestigiosissime statuette agli Oscar del 2000 (miglior film, miglior regia, miglior fotografia, miglior sceneggiatura originale e miglior attore protagonista a Kevin Spacey). Il motivo è presto detto: il film, oltre ad essere di pregevole fattura, offre un'aperta critica alla borghesia statunitense, toccando tematiche tanto care a Hollywood: la distruzione del nucleo familiare tradizionale, l'importanza sempre più centrale dell'estetica e della bellezza rispetto ai valori morali, l'ipocrisia della borghesia occidentale, l'omofobia e l'omosessualità repressa, il libero uso delle armi in America, i traumi post-bellici e chi più ne ha più ne metta. È difficile credere che se la pellicola non avesse avuto tanti rimandi socio-politici (nel 1999 comunque molto meno convenzionali di quanto possano apparire oggi), avrebbe ottenuto lo stesso numero di riconoscimenti, che, almeno in teoria, dovrebbero essere attribuiti esclusivamente in base al valore tecnico di un film, piuttosto che al suo messaggio di fondo. Ad ogni modo, non è questa la sede per discutere delle scelte dell'Academy. Ci si limiterà soltanto a dire che le cose che hanno convinto maggiormente Hollywood sono quelle che ci hanno lasciato più perplessi. Sia chiaro, American Beauty è un buon film. Forse però non è il capolavoro a cui si potrebbe pensare sfogliando il lunghissimo elenco di riconoscimenti ricevuti da ogni parte del mondo.
Mettendo da parte qualsiasi disquisizione teorica sulla meritevolezza dei premi ricevuti, occorre ora entrare nel merito del film, analizzandolo nel dettaglio.
Il punto forte della pellicola è senza alcun dubbio la sceneggiatura, che riesce a caratterizzare perfettamente ciascun personaggio, giocando bene con gli stereotipi e sfruttandoli al meglio per condannarli.
Ciò nonostante, nonostante la critica della borghesia emerga in modo chiaro e diretto, l'impressione è che sia talvolta piuttosto edulcorata, risultando meno graffiante di quanto avrebbe potuto. Non convince pienamente nemmeno la scelta di utilizzare il protagonista come narratore, il quale, per forza di cose, non potrebbe mostrare allo spettatore scene che richiederebbero una sua onniscienza. Ottimo invece lo sviluppo della trama, che anche grazie allo splendido montaggio alternato accompagna lo spettatore verso un epilogo enigmatico fino all'ultima scena. La regia di Mendes, per quanto non particolarmente esaltante, si dimostra abile nel trasmettere il disagio e l'eros, dando il meglio di sé nelle sequenze oniriche, in cui la telecamera sembra quasi levitare. Non è un caso che tutte le sequenze frutto dell'immaginazione del signor Lester siano quelle che più di tutte hanno resistito alla prova del tempo, divenendo iconiche. Di buon livello risultano anche la scenografia, che sembra esteriorizzare il vuoto dei protagonisti, immergendoli in spazi ampi, asettici e desolati, e la fotografia, in grado di adattarsi alle emozioni del protagonista, utilizzando colori più spenti all'inizio, che divengono progressivamente più brillanti mano a mano che Lester ritrova la sua giovinezza perduta. Proprio la giovinezza, identificata con la rosa (enfatizzata dal rosso brillante della fotografia), sembra venirsi a configurare come il tema cardine della pellicola. Il titolo del film, infatti, con un gioco di parole richiama sia alla “bellezza americana” (racchiusa nel personaggio di Angela, tanto graziosa e seducente fuori, quanto vuota dentro), sia al tipo di rosa usata per simboleggiarla (le rose del film sono appunto delle American Beauty). Interessante notare come nella prima scena in cui appare la signora Burnham, questa viene rappresentata nell'atto di recidere le rose, come ad indicare un taglio netto rispetto alla sua giovinezza, in evidente contrasto con quella del marito, che invece dalle rose si lascia travolgere in tutti i suoi sogni. Nonostante la critica alla vanità e alla sempre maggiore centralità dell'estetica però, il lungometraggio si chiude comunque con un invito, che rimanda piuttosto esplicitamente ai versi di Lorenzo de' Medici, il quale ne Il lamento di Corinto (1464) scriveva: “Cogli la rosa, o ninfa, or che è il bel tempo”, esprimendo così tutta la caducità della vita e anticipando il fortunato tema del carpe diem, più volte richiamato anche in American Beauty. Non è dunque un caso, che catturare la bellezza è proprio ciò che ossessiona anche Ricky, il quale tenta di immortalare tutto il bello con dei video, per renderlo eterno e farlo sopravvivere allo scorrere del tempo.
Degne di nota risultano anche le musiche di Thomas Newman (Le Ali della Libertà, 1994 – 1917, 2019), il quale riesce a scandire il ritmo della narrazione affidandosi alla ritmica piuttosto che all'armonia e utilizzando con successo strumenti a percussione tipici della world music. Eccezionali infine le interpretazioni del cast, su cui spicca la monumentale performance di Kevin Spacey, ottimo nell'incarnare l'uomo borghese in crisi di mezza età, alle prese con problemi domestici, professionali ed esistenziali, ma in grado di risollevarsi e di riuscire a ritrovare sé stesso, ancora in tempo utile. Un'ultima menzione spetta al trucco, che nel rappresentare il sangue del protagonista riesce a trasformare la tragedia della morte in un vero e proprio momento di dolcezza. Il liquido rosso che si posa sul marmo bianco della cucina rimanda a una glassa densa e zuccherata che, con dolcezza, sembra adagiarsi su una torta bianca, tutta da assaporare. A conferma di ciò, basti pensare al volto di Lester, mai tanto sorridente come in punto di morte.
Insomma, come si è già avuto modo di dire in precedenza American Beauty rappresenta un buon esordio alla regia, forse eccessivamente incensato dalla critica, ma di certo degno di nota. Nonostante un'autorialità talvolta forzata, il film offre un ottimo spaccato della società americana che nel 1999 si stava affacciando nel XXI secolo, presentando un simbolismo, semplice, chiaro e quanto mai efficace.
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