Un giovane miliardario newyorkese, negli anni Ottanta, compie per diletto una serie di efferati omicidi.
Un giovane miliardario newyorkese, negli anni Ottanta, compie per diletto una serie di efferati omicidi.
Sospeso fra l'umorismo violento di Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick e l'incubo paranoico da Inquilino del terzo piano (1976) di Roman Polanski, American psycho è una satira gustosamente sadica e sopra le righe del ceto benestante americano, quello formatosi negli anni di Ronald Reagan, e in generale di una società basata su possesso, competizione e mostruosa deviazione delle pulsioni verso l'apparenza e la schizofrenia. Una critica, al netto di una riuscita e spietata analisi del personaggio protagonista come prodotto indicativo del capitalismo predatorio e individualista, non sempre efficace nella propria realizzazione tecnica e narrativa.
La regista Mary Harron (Ho sparato a Andy Warhol, 1996) riadatta assieme allo sceneggiatore Guinevere Turner il romanzo omonimo di Bret Easton Ellis del 1991. La trasposizione a livello di scrittura raggiunge il proprio apice proprio nel tratteggiare un protagonista edonista, inebriato di mascolinità tossica e di un narcisismo tanto frustrante da fargli desiderare la colpa, così poco simpatetico da infastidire lo spettatore: merito, nella resa, anche e soprattutto di Christian Bale, in una interpretazione innervata di follia ora raggelante, ora esplosiva. La riuscita dei personaggi, soprattutto nelle loro connotazioni di genere (il maschio fragile e ancorato a simboli di potere, la femmina subalterna e oggetto di sguardo, utilizzo, annichilamento), è il tratto più felice del film. Meno convincente è tuttavia lo sviluppo della trama: la quale, se dapprima appare giusto frettolosa in alcune ellissi temporali, nel finale perde completamente di controllo e chiarezza, vanificando per giunta il gioco di ambiguità fra realtà e delirio che attraversa la narrazione. Il montaggio alternato fra la confessione di Bateman e i ritrovamenti di Jean, a cura di Andrew Marcus, non contribuisce alla valenza espressiva del racconto ma anzi la depotenzia.
Purtroppo, il supposto plot-twist finale è un buon esempio di quanto sia rischioso gestire colpi di scena così drastici:
il riferimento è al ben più riuscito finale di un capolavoro di poco precedente che racconta sempre di capitalismo, violenza e schizofrenia, Fight club (1999) di David Fincher.
Ciononostante, la regia si dimostra buona, soprattutto nelle carrellate ambientali e in alcune sequenze macabre dove la commedia nera cede il posto al thriller effettivo. A livello di costumi, a cura di Isis Mussenden (Shrek, 2001), si sottolinea l'ottima scelta di abbigliare i giovani affaristi newyorkesi con capi di lusso tanto esclusivo quanto intercambiabile fra loro: questi ultimi, oltre a rappresentare una ossessione per il protagonista e a calarci bruscamente nel contesto dell'America miliardaria degli anni Ottanta, sottolineano meglio di quanto non riesca alla sceneggiatura il continuo gioco di doppi, scambi fra persone e confusioni di identità. Il modello, se non diretto perlomeno obbligato, è fin dal titolo il maestro delle commedie macabre e dei thriller venati di umorismo, Alfred Hitchcock (Psyco, 1960).
Buona, almeno nelle sequenze noir, la fotografia di Andrzej Sekula, collaboratore del primo Quentin Tarantino. Da lodare maggiormente, invece, la colonna sonora a cura di un esponente non certo trascurabile: John Cale, ex membro dei Velvet Underground di Lou Reed e produttore discografico di Patti Smith, Nick Drake e Nico. La quale cala lo spettatore, con discrezione, nel pieno degli anni di ambientazione, dialogando con la colonna sonora non originale e diegetica (Phil Collins, Whitney Huston), che rappresenta un'ennesima ossessione per il protagonista.
In definitiva, American psyco è un film riuscito solo in parte nei propri intenti originari, e tuttavia memorabile sotto certi aspetti. Su tutti, il black humor che sembra quasi anticipare La casa di Jack (2018) di Lars von Trier e la performance di Christian Bale in stato di grazia. Lo statuto di cult è meritato, peraltro, in virtù delle numerose citazioni che l'opera ha avuto in contesti esterni al mondo cinematografico, quali l'immaginario collettivo e la sociologia.
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