La macabra trama di un manoscritto, recapitato a una donna da parte del suo ex-marito, la porta a riflettere sulle proprie colpe passate.
La macabra trama di un manoscritto, recapitato a una donna da parte del suo ex-marito, la porta a riflettere sulle proprie colpe passate.
Può sembrare sconvolgente che uno dei più recenti capolavori del nuovo cinema noir provenga dalla penna, e dalla macchina da presa, non di un regista di professione, bensì di un noto stilista. Eppure Tom Ford, al suo secondo film dopo A Single Man (2009), spiazza le aspettative con un gioiello che, innanzitutto per le immagini, è quasi impeccabile. Che sia merito della fotografia di Seamus McGarvey (Alta fedeltà, 2000; The Avengers, 2012) o proprio dell'occhio allenato all'estetica di Ford, ciò che conta è il risultato: un'efficacia visiva che passa dalle ballerine felliniane dei titoli di testa alle riprese notturne della strada, rappresentazione della provincia americana più recondita è malata sulla sedia del miglior David Lynch.
Tom Ford dimostra però dimestichezza con la macchina del cinema anche per quanto riguarda la scrittura: il soggetto, tratto dal romanzo Tony and Susan di Austin Wright, viene reso nella sceneggiatura con un ricorso ai modelli tensionali più efficaci.
Alternando il dramma personale al thriller psicologico, intersecando tre livelli narrativi (passato, presente, finzione) estremamente connessi fra loro e ricorrendo all'espediente delle scatole cinesi, lo spettatore si trova di fronte a una storia lineare, malgrado la complessità, eppure coinvolgente e inaspettata.
La sensazione di essere incatenati alla poltrona della sala, trasportati nel vortice psicotico della protagonista dall'obiettività dei dialoghi e dal montaggio alternato perfetto di Joan Sobel, è il punto di forza maggiore del film. E davvero il montaggio risulta funzionale e nobilita un racconto già di per sé d'alto livello: Sobel, d'altra parte, ha una dimestichezza con la molteplicità di linee narrative ereditate dalla propria esperienza con il dittico Kill Bill (2003-2004), per cui ha assistito alla montatrice Sally Menke.
Le musiche di Abel Korzeniowski (già collaboratore di Tom Ford e autore della riedizione, nel 2004, di Metropolis di Fritz Lang), di nuovo, sono perfettamente coordinate allo storytelling. Una menzione d'onore va anche alle interpretazioni principali. Oltre a Gyllenhaal sdoppiato fra scrittore vendicativo e suo doppio romanzato (idea efficace dal punto di vista del casting), e alla Adams perfetta nel proprio ruolo ambiguo, si sottolinea come gli attori sappiano ora essere tremendamente umani e sofferenti, ora spietati e sadici come automi (o come agenti narrativi, specie nelle sequenze del romanzo dentro al film?).
Non sorprende che un film del genere, autoriale nel senso vero del termine, abbia avuto più successo in circuiti e festival d'essay che presso il pubblico più composito (una sola candidatura agli Oscar, peraltro meritata, per Shannon!). Presentata a Venezia, Toronto e Londra, la pellicola ha ricevuto più candidature che premi effettivi, fatta eccezione per il David di Donatello nel 2017 è un Golden Globe ad Amy Adams. Si tratta infatti di un crime ad alta tensione, dove le dinamiche psicologiche sono proprio ciò che colpisce maggiormente lo spettatore, portandolo a livelli di violenza mentale quasi insostenibile (laddove la violenza si fa esplicita, invece, la qualità cala leggermente). Un plauso va quindi alla strategia distributiva di Netflix che, rivelandosi più arguta di quella delle classiche sale, ha incluso il film nel proprio catalogo: quando un'opera è tale da sconvolgere sia il cinefilo che lo spettatore occasionale, andrebbe semplicemente preservata con la visibilità che si merita.
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