Per elaborare il lutto della morte del figlio, una coppia si trasferisce in un bosco. Una spirale di malvagità e mistero finirà per avvolgerli.
Per elaborare il lutto della morte del figlio, una coppia si trasferisce in un bosco. Una spirale di malvagità e mistero finirà per avvolgerli.
Fra i film del regista e sceneggiatore danese Lars Von Trier (Le onde del destino, 1996; Dogville, 2003; Melancholia, 2011), Antichrist è forse il più lontano dal manifesto programmatico di Dogma 95, e allo stesso tempo il più esplicito quanto a violenza e intenti metaforici. Diverse sono infatti le trame simboliche e significative che lo attraversano: su tutte, la questione della donna come strega, o meglio come essere essenzialmente corrotto perché così visto da uno sguardo egemone prettamente maschile, la cui dolce cura e paternità è in realtà patriarcato dominante e inquisitorio. Che alla donna sia attribuito da sempre, nella cultura occidentale, un male inestirpabile, lo provano i miti veterotestamentari (Adamo ed Eva) così come l'immaginario legato a caccia ed eliminazione delle streghe, entrambi ben presenti nel film. Lo stesso termine «isteria» è legato all'essenza femminile fin dalla sua etimologia greca, la medesima di «utero», e proprio il filosofo Aristotele, cui va attribuita la messa a sistema di buona parte delle categorie logiche e di pensiero arrivate fino a noi, affermava che la donna fosse un uomo mutilato. Von Trier condensa, quindi, un intero discorso storico, culturale e filosofico in meno di due ore di film, che risulta estremamente allegorico e innervato di un'inquietudine disarmante. Quanto le donne siano sempre state protagoniste nel cinema di Von Trier lo provano i titoli summenzionati, che vedono tre personaggi femminili alle prese ora con lo sguardo persecutorio della società e della istituzione familiare, ora con l'attribuzione di malvagità. Qui il discorso è condotto, appunto, con modalità più esplicite e attraverso una chiave horror satanica che fa di Antichrist un lavoro atipico persino per Von Trier.
La sceneggiatura, come si è detto, è attraversata da complessi riferimenti filosofici e culturali, in cui il mito biblico di Eden incontra le leggende da bestiario medievale: l'allegoria è forse una via più facile rispetto al violento realismo tipico dell'autore, ma risulta decisamente suggestiva. La potenza della scrittura di Von Trier sta, come sempre, nel creare situazioni narrative e psicologiche con i minimi termini: l'essenzialità è, nel suo caso, intensità. L'organizzazione in capitoli è forse più funzionale a una scansione atmosferica e tensionale che non allo sviluppo in sé della vicenda, e tuttavia risulta innegabilmente efficace e dotata di fascino misterioso. Il vero punto debole della sceneggiatura risiede invece nei dialoghi, che appaiono piuttosto accessori quando non banali, come nelle sequenze di seduta psicanalitica.
La brutalità del prologo si contrappone alla poetica e disarmante poesia dell'epilogo, sia a livello di scrittura che di regia.
Proprio in questi due momenti Von Trier abbandona il proprio stile con macchina da presa a mano, altrimenti presente in tutto il film, per abbandonarsi a un virtuosismo registico e pittorico di assoluta è isolata bellezza. Merito dell'ottima fotografia in bianco e nero di Anthony Dod Mantle (collaboratore abituale di Danny Boyle e premio Oscar 2009), il cui nitore sublime delle immagini contrasta l'orrore di quanto vi è rappresentato, e di un utilizzo quasi ironico dell'aria Lascia ch'io pianga di Georg Friedrich Händel, che rimanda allo sposalizio fra lo stesso compositore e lo Stanley Kubrick di Barry Lyndon (1975).
Stanti questi momenti isolati e virtuosistici, la regia di Von Trier risulta nel restante sviluppo del film estremamente disturbata e volutamente caotica. Il rifiuto della sintassi cinematografica, anche a livello di montaggio a cura di Tony Lawson, qui non è tanto dovuta al riferimento a Dogma 95, quanto alla funzionalità effettiva di provocare nello spettatore un senso di disagio e nausea talvolta insostenibili. Un plauso meritano gli unici due interpreti, ricorrenti nella filmografia dell'autore: Dafoe e Gainsbourg si esprimono con una prova attoriale ed espressiva prossima alla disarmante perfezione. Da sottolineare infine la scenografia di Karl Júlíusson, composta di elementi visivamente affascinanti e allo stesso tempo pervasi di inquietudine.
Antichrist è un'opera che tocca corde spesso sopite della cultura occidentale e affronta questioni come satanismo, femminismo e stregoneria in maniera paradossalmente opposta ma non dissimile al più recente The VVitch (2015) di Robert Eggers, di cui condivide l'essenzialità di cast e ambientazioni e l'accurata bibliografia di riferimenti, ma da cui diverge quanto a resa e stile narrativo. Il film è dedicato, infine, alla memoria del regista sovietico Andrej Tarkovskij, a cui non mancano numerosi, alle volte espliciti, riferimenti.
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