A seguito di quella che si teme essere un'invasione di navicelle aliene sulla Terra, una linguista e un fisico cercano di decifrare il linguaggio dei visitatori, venendo a conoscenza del futuro del proprio pianeta e delle proprie vite.
A seguito di quella che si teme essere un'invasione di navicelle aliene sulla Terra, una linguista e un fisico cercano di decifrare il linguaggio dei visitatori, venendo a conoscenza del futuro del proprio pianeta e delle proprie vite.
La tematica di un contatto fra la nostra civiltà e una popolazione extraterrestre risale agli albori della fantascienza e sembrava pertanto impossibile ricavarne un film del tutto originale. Ebbene, con Arrival il canadese Denis Villeneuve (Polytechnique, 2009; Blade Runner 2049, 2017) orchestra una storia che trascende il genere fantascientifico e assume i caratteri della favola filosofica. Diversi gli elementi che fanno di questo un prodotto perfetto sotto quasi tutti gli aspetti.
Partendo proprio dalla regia: Villeneuve, che solo un anno dopo si sarebbe confrontato con il seguito del capolavoro di Ridley Scott, creando un nuovo e per certi aspetti maggiore capolavoro, si dimostra innanzitutto un maestro della messa in scena visiva. La nera navicella aliena, dall'aspetto ieratico degno del monolite di 2001: Odissea nello Spazio (Stanley Kubrick, 1968), si staglia infatti sulla brumosa radura dell'accampamento militare creando un'immagine di forte impatto e difficilmente dimenticabile. Merito condiviso, ovviamente, con la fotografia fredda e minimale, candidata agli Oscar, di Bradford M. Young (Solo: a Star Wars Story, 2018) e con la scenografia di Patrice Vermette (Vice – L'uomo nell'ombra, 2018).
Forse i cultori della fantascienza noteranno il mancato uso della CGI laddove poteva rendere più complesse alcune sequenze, o la resa degli alieni piuttosto oscurata dalla nebbia che li circonda: d'altra parte, più che per pigrizia negli effetti speciali, si può ritenere legittima la volontà di non distrarre dal significato del soggetto.
Villeneuve dimostrerà appunto di saper gestire un racconto improntato sulla tecnologia con Blade Runner 2049; Arrival è semplicemente un film differente negli intenti,
dove la funzione dell'immagine è più evocativa che mostrativa. È apprezzabile, semmai, come il regista sia riuscito a produrre due capolavori così differenti, pur mantenendo una certa coerenza nella propria evoluzione professionale.
Si è detto che, al pari della regia, costituiscono punti di forza del film il soggetto non originale, da un racconto Ted Chiang, e la sceneggiatura di Eric A. Heisserer (Bird Box, 2018). L'idea che imparare un linguaggio (alieno, in tal caso) cambi la percezione di tempo e realtà è chiamata in linguistica ipotesi di Shapir-Whorf. Non è operazione scontata basare un film accessibile su una tesi altamente scientifica, capace di rientrare appieno anche nei dibattiti accademici sulla relatività del tempo. Gli studiosi di filosofia potrebbero scrivere intere pagine sulle connessioni fra Arrival e l'eterno ritorno dell'uguale teorizzato da Friedrich Nietzsche, gli esperti di esoterismo sugli spunti derivati dalla circolarità del serpente alchemico, i fisici su quanto Villeneuve avesse presente il principio di indeterminazione di Heisenberg mentre girava. Per fortuna, gli spettatori comuni possono semplicemente lasciarsi trasportare, senza troppi intellettualismi, dalla sceneggiatura mai complicata (forse un po' tecnica a tratti) eppure progressivamente coinvolgente.
Due momenti del film risaltano per maestria: il colpo di scena mediale in cui scopriamo che Louise, nel presente della narrazione, non ha ancora avuto e perso una figlia, smascherando quindi il flashback iniziale che si svela essere un flashforward; il montaggio alternato finale di Joe Hunger (che collaborerà con il successivo film di Villeneuve), in cui ai due protagonisti nel presente viene accostata la consapevolezza di lei del futuro tragico che la aspetta. Commovente ma non scontata, complessa ma tutt'altro che incomprensibile, la sceneggiatura trova l'unico suo punto debole nella previsione che gli alieni, in futuro, chiederanno aiuto ai terresti: un pretesto narrativo che, per quanto non rappresenti certo il focus della narrazione, appare poco sviluppato e giusto accennato.
Quanti ai rimanenti comparti della post-produzione, va sottolineato il montaggio sonoro da Oscar, e da BAFTA, di Sylvain Bellemare (Monsieur Lazhar, 2011) e la colonna sonora di Jóhann Jóhannsson (La teoria del tutto, 2014), basata perlopiù su On the nature of daylight di Max Richter: mai invadente e adatta ai momenti di tensione, forse non all'altezza dell'originalità degli altri reparti tecnici.
Villeneuve, per riassumere, ci ha regalato un film quasi perfetto, rispettoso dei modelli precedenti della fantascienza ma innovativo: perciò fa ben sperare l'intenzione annunciata di girare un remake di un altro, e alquanto controverso, capitolo della sci-fi cinematografica quale Dune (1984) di David Lynch.
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