Trent'anni dopo i fatti narrati nel primo film, il replicante e cacciatore di androidi K. compie un misterioso ritrovamento. Si troverà a fare i conti con il proprio passato e con quello dei mitici Rick Deckard e Rachel.
Trent'anni dopo i fatti narrati nel primo film, il replicante e cacciatore di androidi K. compie un misterioso ritrovamento. Si troverà a fare i conti con il proprio passato e con quello dei mitici Rick Deckard e Rachel.
Realizzare un seguito, a distanza di decenni, del Blade Runner (1982) di Ridley Scott era un’operazione rischiosa sotto tutti i punti di vista. La possibilità che i vecchi fan del cult si sentissero traditi, o che le nuove generazioni non ne cogliessero i rimandi, era concreta esattamente come l’avventatezza di produrre un ennesimo soggetto sul rapporto fra vita robotica e vita umana. Denis Villeneuve (Polytechnique, 2009; Arrival, 2016), come abbiamo ribadito altrove, non è però un autore che si sottrae alle sfide difficili, e riesce a regalare al pubblico un vero capolavoro.
Il soggetto di Hampton Fancher, sceneggiatore del primo capitolo, amplia il mondo e le riflessioni dello scrittore Philip Dick portandole alle estreme conseguenze. Se nel film del 1982 il dubbio radicale dei personaggi riguardava la propria essenza artificiale o meno, qui con l’espediente della possibilità di procreazione da parte degli androidi il confine fra natura e tecnologia si fa ancora più labile e, al contempo, drammatico. Così anche l’introduzione degli ologrammi, ennesime figure mediane nello spettro che separa l’uomo dalle proprie macchine, punta nella direzione di una storia che, più che l’individuo, ha al centro le relazioni affettive.
La società di oggi non è più quella degli anni 80 e il pubblico ha familiarizzato con l’idea delle intelligenze artificiali che allora era, è il caso di dirlo, fantascienza: era quindi dovuto che le tematiche venissero poste a un livello più complesso.
Anche nel rispetto dell’originale di Ridley Scott, di cui nella sceneggiatura di Fancher e Michael Green (Assassinio sull’Orient Express, 2017) vengono ampliate le possibilità narrative, sciogliendone alcuni dubbi fondamentali. La linea narrativa risulta quindi più che efficace, soprattutto nella definizione del personaggio di K, perfettamente robotico ma ammaliato dalla possibilità di essere diverso, fino al finale che ha il pathos dei migliori drammi e l’austerità del grande racconto epico. Ottima pure la sotto-trama sentimentale con l’ologramma. A tratti forse lo storytelling può risultare lento o presentare scene d’azione fuori luogo, ma sono difetti minimi a fronte di una coerenza lodevole.
Il visivo è l’altro grande protagonista del film. Merito di Villeneuve e del suo direttore di fotografia da Oscar Roger Deakins (Fargo, 1996; Non è un paese per vecchi, 2007), ma anche degli effetti speciali. Pure in questo caso, l’intenzione è rapportarsi all’originale non per copiarlo ma per reinventarlo. Così con i colori prevalentemente freddi e noir di questo si confrontano le atmosfere più calde, quasi avvolgenti, di questo. Gli scenari di Dennis Gassner (altro premio Oscar, per Bugsy nel 1992) ripropongono la grande metropoli di un tempo, fra cartelloni luminescenti della Coca Cola e Atari, in un gioco di commistioni fra passato e futuro che sono una gioia per gli occhi. Una compenetrazione perfetta fra elementi che si ha anche nelle sequenze dove coagiscono realtà e virtualità (es. la scena erotica fra K e Joi). Il tutto tenuto assieme da una regia consapevole che, con campi lunghi e profondi, crea un binomio fra arte e tecnica strabiliante.
Altra nota di merito, il montaggio sonoro (specie nelle scene di combattimento) e il commento musicale. Alla colonna originale indimenticabile di Vangelis (Momenti di gloria, 1981) sono affiancate le sperimentazioni di Hans Zimmer (La sottile linea rossa, 1998; Il cavaliere oscuro, 2008) e Benjamin Wallfisch (Shazam! e Hellboy, 2019): gli innesti dance punk nobilitano e integrano così le atmosfere già note al pubblico.
Quanto alle interpretazioni, la scelta più azzeccata è far ritornare sul grande schermo Harrison Ford e Sean Young, creando la loro attesa per tutta la prima metà del film. Ottimi anche Ryan Gosling e Ana de Armas, mentre lascia più perplessità il personaggio di Jared Leto. Va notato che molti dei personaggi, specie quelli femminili, non hanno lo spessore iconico e mitico che invece ha saputo costruire il primo Blade Runner. È però vero che lo statuto di cult non viene dato a un film una volta per tutte ma si costruisce con il tempo e con le riletture che se ne fanno: la speranza è che il film di Villeneuve faccia scuola come l’originale. Una scuola diversa, di sicuro non paragonabile, ma certamente un nuovo capitolo di quel mondo vasto e variegato che è il cinema di fantascienza.
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