Un fotografo londinese, annoiato dalla vita, scopre gli indizi di un omicidio tramite gli ingrandimenti su alcuni suoi scatti.
Un fotografo londinese, annoiato dalla vita, scopre gli indizi di un omicidio tramite gli ingrandimenti su alcuni suoi scatti.
Blow up, nella propria estrema sintesi, è un'opera complessa e suscettibile di molteplici letture. Molte delle quali potrebbero risultare inintelligibili per chi non avesse presente altri titoli del regista e sceneggiatore Michelangelo Antonioni: il riferimento principale è alla cosiddetta tetralogia esistenziale o dell'incomunicabilità (L'avventura, 1960; La notte, 1961; L'eclisse, 1962; Deserto rosso, 1964). Essenza comune a tutti questi titoli è ciò che il filosofo Gilles Deleuze avrebbe definito cinema dell'«immagine-tempo»: la narrazione si fa debole e predilige l'errare esistenziale e senza meta dei protagonisti a uno scopo da raggiungere vero e proprio. In Blow up, in verità, lo scopo esiste e coincide con la risoluzione di un mistero. La quale, tuttavia, viene annegata nella letterale impossibilità di ricerca della verità da parte del protagonista, soffocato dallo spleen, dalla sensazione che nulla possa essere diverso da come accade (ciò che per Mark Fisher rappresenta la condanna del «realismo capitalista») e dalla consapevolezza della propria afasia.
È infatti l'incomunicabilità, assieme all'assenza di verità e di scopo, l'altro grande pilastro tematico: non solo non si può comunicare il vero, ma sembra quasi non si possa dire nulla. Fattore più importante, ed è l'ultimo nodo significativo da svolgere, nemmeno la macchina del cinema può farlo: il film è innanzitutto una profonda e amara riflessione sulle potenzialità della cinematografia a settant'anni dalla sua portentosa invenzione. La tecnologia permette al fotografo Thomas di indagare la realtà oltre l'apparenza, ma il compito del cinema di rendere «più vero del vero» ciò che accade si consuma in una partita mimata da clown: pura finzione, gioco disilluso che si abbandona a se stesso e alla menzogna. Quando non vano, anzi, il cinema/la fotografia diventa atto di appropriazione al limite della violenza, proprio perché fine a se stesso, isolato dalla realtà e quindi affine a quello che sempre Deleuze intendeva per sadismo: la mitica scena dell'«amplesso fotografico» fra Thomas e le modelle è a tal proposito esemplificativo.
La regia di Antonioni esprime al meglio sia la questione meta-cinematografica che quella dell'incomunicabilità. La seconda si svolge attraverso l'ossessivo pedinamento, da parte della macchina da presa, del protagonista Thomas, perennemente irrequieto, solitario e senza meta.
La prima è invece al centro di uno dei movimenti di macchina più noti della storia del cinema, la cui intuizione arriva (con differente significato) fino a Paul Thomas Anderson con Il petroliere (2007): nella scena in cui Thomas osserva gli ingrandimenti, la cinepresa si sposta fra le varie stampe comportandosi da soggettiva, per poi muoversi con carrello all'indietro alle spalle del personaggio, oltrepassando la linea del suo sguardo. È la fusione completa di occhio del cinema, dello spettatore e del personaggio, a cui si può aggiungere, secondariamente, anche quello della donna ritratta che guarda fisso l'obiettivo. Nella già citata scena del fotografo con le modelle, invece, dà un fondamentale contributo il montaggio ritmato e frenetico di Frank Clarke, collaboratore abituale del regista nel suo periodo inglese.
La sceneggiatura, scritta da Antonioni assieme a Edward Bond (Nicholas and Alexandra, 1971) e Tonino Guerra (oltre a socio ricorrente del suddetto, ricordato fra gli altri per Uomini contro, 1970), si colloca sulla stessa linea. L'intuizione, a partire da un soggetto dello scrittore Julio Cortazar, di prendere una storia ad enigma e lasciarla irrisolta è parte integrante della concezione filosofica sottesa al film. Gli stessi dialoghi assomigliano più a monologhi che a effettivi scambi di battute: l'isolamento e il silenzio pervadono i personaggi, fino all'ultima spiazzante scena dei mimi, che le parole della sceneggiatura non fanno altro che anticipare. Il senso di solitudine muta è dato, anche e soprattutto, dalla splendida fotografia di Carlo di Palma (L'armata Brancaleone, 1966; Harry a pezzi, 1997) che, oltre a valorizzare i colori d'epoca che oggi esaltano la qualità dichiaratamente finzionale della pellicola, costruiscono quadri entro cui l'unico protagonista è lo spazio assente fra i personaggi. Vuoto, questo, che come da significato rimane assolutamente incolmabile.
Appare quasi superfluo sottolineare le virtù tecniche di un film così profondo a livello di significato per l'epoca e per le teorie del cinema in genere. Bisogna comunque citare, innanzitutto, la capacità di David Hemmings di reggere da solo buona parte delle scene, cercando di mantenersi sottotono a voler trasmettere la vacuità esistenziale del proprio personaggio.
Degni di nota, infine, i costumi di Jocelyn Rickards, che riportano lo spetttaore soprattutto di oggi a quegli anni. Un periodo storico in cui il cinema si trovò a compiere riflessioni fondamentali su se stesso e su quello sviluppo del sistema capitalistico, individualista e postmoderno che esso stesso aveva contribuito, in qualche modo, a creare.
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