In un futuro distopico, un impiegato ministeriale si trova a tradire lo stesso sistema che lo domina per amore di una donna.
In un futuro distopico, un impiegato ministeriale si trova a tradire lo stesso sistema che lo domina per amore di una donna.
Dei film che hanno profondamente inciso l'immaginario narrativo distopico e fantapolitico, Brazil è ingiustamente il più dimenticato in rapporto alla sua potenza creativa. Vi si trovano, come catturati dal vortice di un carosello frenetico e grottesco, il 1984 (1948) di George Orwell riletto attraverso la critica esistenzialista al freddo ordine delle istituzioni e della burocrazia di Franz Kafka, ma anche il surrealismo scenografico di Federico Fellini, il cyberpunk di David Cronenberg e John Carpenter, le visioni cupe e acide del futuro di Stanley Kubrick e del suo Arancia meccanica (1971). Volendo tornare alle origini del cinema stesso, l'universalità del conflitto fra uomo e funzione, maschera sociale e sogno, tecnica e uso della stessa rimanda a Buster Keaton, alle sue fughe irreali da un mondo in cui gli oggetti, invece che essere utilizzati, risultano ingovernabili. Per dimostrare quanto Brazil abbia invece contribuito, rimodellando tali elementi, agli esemplari di genere a venire, basterebbe citare i tubi trasportatori della serie animata cult Futurama (1999 – 2013) di Matt Groening. A fare lago della bilancia fra ispirazioni passate e eredità future, vi è la mente del regista e sceneggiatore Terry Gilliam (Paura e delirio a Las Vegas, 1998; L'uomo che uccise Don Chisciotte, 2018), unico componente americano, nonché il più postmoderno, di quel fenomeno rivoluzionario per la percezione contemporanea dell'assurdo cinetelevisivo che furono i Monty Python. Nei loro sketch del Flying Circus (1969 – 1974), popolati di «Ministeri delle camminate strane» e Inquisizioni spagnole, vanno rintracciati i prodromi dell'approccio innovativo di Gilliam al genere fantascientifico.
La sceneggiatura, effettivamente, riprende del classico di Orwell lo scenario di società futuribile iper-burocratizzata, così pervasa da endocolonizzazione e paranoia da modificare il quotidiano, il linguaggio, la mentalità degli individui, la loro stessa attività onirica. La persecuzione paranoica ministeriale si fa astratta e ossessiva perversione nel momento in cui, con il Kafka de Il processo (1925), l'individuo è a prescindere colpevole di un crimine che non sa di avere commesso e perciò perseguibile. Da Orwell, tuttavia, Gilliam si discosta nel momento in cui il primo descrive una forma effettiva, per quanto non gloriosa, di resistenza al potere; in Brazil quest'ultima è affidata completamente all'immaginazione del protagonista. L'ignoranza del reale, che in Orwell era strumento manipolativo del potere, in Gilliam è redenzione. In ciò sta forse la chiave di lettura meno sociopolitica e più originale del film: l'unica utopia realizzabile, in una società destinato a morire delle proprie manie, è la follia di chi non può che rifugiarsi nei propri fantasmi. In senso metacinematografico, la finzione non può cambiare il mondo ma può renderlo vivibile se vi ci si lascia trasportare, come nuovamente Buster Keaton in Sherlock Jr. (1924) oltrepassa lo schermo entrando nel film proiettato in sala. La trama è quindi fitta di citazioni e spunti riflessivi, nonché di alcune perle di paradossale ironia: dai bambini che desiderano carte di credito per Natale, al tecnico interpretato da De Niro che entra in scena come una sorta di redivivo Fantômas, fino all'inseguimento onirico e dinamitardo, in cui Sigmund Freud incontra il mito di Icaro. Brazil, non troppo ironicamente, potrebbe rappresentare uno dei pochi casi nella storia della scrittura scenica in cui l'espediente del sogno non è fuori luogo.
Se la sceneggiatura, letteralmente, è un continuo fuoco d'artificio di umorismo nero, gli aspetti visivi del film puntano più decisamente verso Toni di oppressione e compressione. Azzeccata la fotografia di Roger Pratt (Frankenstein di Mary Shelley, 1998; Dorian Gray, 2009), che punta verso colorazioni livide e scale di grigi e si fa evanescente nelle sequenze oniriche.
Allucinata e barocca la regia di Gilliam, fatta di carrellate, zoom improvvisi, movimenti nervosi e inquadrature quasi deformanti.
Un plauso va inoltre alla scenografia di Norman Garwood (La storia fantastica, 1987), Keith Palin e John Beard che, per quanto talvolta appaia limitata, condensa il panopticon di Jeremy Bentham, la giungla urbana futuristica di Blade Runner (Ridley Scott, 1982) e l'algido caos pianificato di Metropolis (Fritz Lang, 1927).
Una nota positiva, per concludere, va agli interpreti e al cast. Il quale presenta, in ruoli più o meno evidenti, una carrellata di attori spesso a torto esclusi dalla rosa delle celebrità e relegati a un secondo ordine (eccezione fatta per De Niro), eppure tutti perfettamente calati in personaggi da scrittura poco empatici ma sicuramente in grado di popolare il folle e distopico universo creato da Gilliam: dal Monty Python Michael Palin a Bob Hoskins, dal recentemente scomparso Ian Holm fino al protagonista Jonathan Pryce, la cui abilità ha finalmente ricevuto inveramento con la candidatura agli Oscar 2020 per I due papi (2019) di Franando Meirelles. Il titolo Brazil rimanda al leitmotiv musicale Aquarela do Brasil di Ary Barroso, che non solo costituisce una nota di surreale accompagnamento alle vicende narrate ma rappresenta la chiave di volta fra fantasia del protagonista e realtà del film e, in ultima analisi, fra realtà del film e la nostra.
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