Due coppie di genitori si trovano per riappacificare una lite sorta fra i rispettivi figli: ne scaturiranno conseguenze più violente del previsto.
Due coppie di genitori si trovano per riappacificare una lite sorta fra i rispettivi figli: ne scaturiranno conseguenze più violente del previsto.
Costante nella carriera di Roman Polanski è sempre stato il confronto con la ristrettezza dello spazio narrativo e le conseguenze che ne derivano. Se tale angustia rimane reale per il prigioniero Dreyfus e metaforica (la ristrettezza degli ingranaggi legislativi) per Picquart, protagonisti dell'ultimo suo film L'ufficiale e la spia (2019), nella celebre trilogia dell'appartamento, che comprende L'inquilino del terzo piano (1976), la ristrettezza è invece proprio concausa degli eventi narrati. Carnage non sfrutta certo una dinamica nuova: la limitazione ambientale, da camera, è tipicamente teatrale, come lo è il testo di soggetto del film, Il Dio del massacro di Yasmina Reza. Tuttavia il lavoro di Polanski merita, per sapienza dei dialoghi e della messa in scena, di essere inserito in quel gruppo esemplificativo di film ad ambientazione singola che, soprattutto negli ultimi anni, sembrano riscoprire tali potenzialità drammatiche: The hateful eight (2015) di Quentin Tarantino e The lighthouse (2019) di Robert Eggers fra gli altri. Capostipite di tutti è quel Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock che, oltre a rappresentare una sfida tecnica suprema per i tempi, aveva messo in luce ciò che la ristrettezza degli ambienti può consentire: una lente di ingrandimento sul dettaglio, sulle singole parole e reazioni dei personaggi, un termometro che varia al minimo mutamento di tensione interpersonale. In misura diversa, ma con lo stesso principio animatore, è ciò che ha guidato anche Lars Von Trier con l'espediente di abbattere i muri del villaggio di Dogville (2003), rendendolo un ambiente unico.
È nella sceneggiatura, di Reza e Polanski, che il film trova uno dei suoi punti di forza principali. Una serie di simmetrie e chiasmi, nei rapporti di tensione e scioglimento fra le due coppie e contemporaneamente fra i singoli individui, rendono la narrazione scandita, eccitante e pronta a farsi seguire in un climax di violenza verbale e tensionale.
Le scene al parco, che aprono e chiudono i film, hanno la stessa funzione di de-compensazione che le introduzioni e le code hanno in certe tumultuose sinfonie classiche:
all'interno delle quali i fraseggi degli strumenti, comparabili ai dialoghi del film, si affastellano cercando di risuonare il più possibile. La gestione degli equilibri dialogici e l'espressione dei motivi di conflitto sono detonanti e costantemente in crescendo: l'analisi spietata della natura umana fatta da Polanski non sembra lasciare spazio a scappatoie o indulgenze. È forse proprio in tale sadismo che risiede il limite della sceneggiatura: Carnage è un meccanismo ad orologeria spinto verso l'abisso, che però trascura tutte le sfumature plausibilmente umane e presenti nei personaggi: in questo, un film più recente come The party (2017) di Sally Potter riesce meglio a calibrare empatia e livore, critica e immedesimazione. Geniale, in ogni caso, la chiusura che ciclicamente si ricollega al principio e spiazza, senza preavviso, lo spettatore.
Ciò non toglie, bisogna sottolineare, nulla alle ottime performance che reggono il film. Con ritmi davvero teatrali e forsennati, i quattro protagonisti incarnano prototipi dello squallore ipocrita e autodistruttivo medio-borghese tanto respingenti quanto ben identificabili. La regia non può, a tal punto, che adagiarsi placidamente sull'efficacia delle dinamiche e la bravura degli attori: una mise en scène particolarmente linda e sobria caratterizza infatti il film. Se ciò sia un limite o una scelta, quasi a voler parodiare la sit-com televisiva familiare offrendone una versione macabra, è risposta da rimandare all'aspettativa di chi guarda. Più probabilmente, tale disaffezione della macchina da presa ai personaggi è frutto del ribrezzo stesso che essi stessi sono in grado di generare.
Nel gioco di sobrietà e limitazioni, a parte la presenza di Alexandre Desplat (L'isola dei cani, 2018; Piccole donne, 2020) per la colonna sonora, si segnala la fotografia di Pawel Edelman, collaboratore abituale di Polanski, che insiste qui con la rappresentazione quasi ossessiva di ordine, cromatismo caldo e pulizia che si rivelano solo man mano ingannevoli.
Carnage, intelligente opera di trasposizione da palcoscenico a schermo, continua un discorso non inedito per l'autore naturalizzato francese: una sorta di quarto capitolo della trilogia summenzionata, in cui l'ossessione e il senso di ostilità paranoica che prima erano di una giovane donna (Repuslione, 1965), poi di una coppia di genitori a New York (Rosemary's baby, 1968) e infine di un immigrato in ambiente metropolitano (L'inquilino del terzo piano), sembrano essersi trasferiti in una quotidianità borghese che, essendo quotidiana e alienante allo stesso tempo, non può che generare paranoie e tensioni.
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