Nella più malfamata favela di Rio de Janeiro, le vicende biografiche di un aspirante fotografo e di un ambizioso criminale si intrecciano a quelle di tanti altri abitanti, fra amori, scelte di vita e sparatorie.
Nella più malfamata favela di Rio de Janeiro, le vicende biografiche di un aspirante fotografo e di un ambizioso criminale si intrecciano a quelle di tanti altri abitanti, fra amori, scelte di vita e sparatorie.
Il sottotitolo di City of God potrebbe essere C'era una volta in America (Latina). Come il capolavoro di Sergio Leone, infatti, anche qui ci troviamo di fronte a una storia di vite personali e intrecciate, sullo sfondo di una comunità dove la malavita e la morte sono all'ordine del giorno.
È peraltro un gusto tipicamente sudamericano quello del racconto generazionale che fa avanti e indietro nel tempo, seguendo i ricordi e il punto di vista di un narratore interno e partecipante. Che qui, oltre a essere una voce che racconta, è anche un occhio che fotografa.
Il soggetto del romanziere Paulo Lins, ispirato a una storia vera, già di per sé è un ottimo punto di partenza: descrivere gli archi narrativi di due personalità opposte in un contesto degradato, cogliendo proprio quel decennio di giovinezza, cambiamenti, scelte e traumi che da un lato porta a una vita soddisfacente, dall'altro a una morte tragica. La sceneggiatura di Bráulio Mantovani (Linha de passe, 2008) sviluppa con dinamismo l'idea iniziale con un accattivante stile a metà fra documentario e racconto di formazione, con una leggerezza e umanità che rendono il film non una violenta sequela di sparatorie ma al contrario un affresco di Cidade de Deus e delle sue vite al limite. Se due ore sembrano tante, in realtà qui sono fin troppo poche: è impossibile esaurire tutte le possibilità lasciate aperte e le singole storie di personaggi minori o secondari. Non per nulla dal film sono state tratte una serie televisiva e un film nel 2008, entrambi dal titolo City of Men.
Tutti gli altri reparti si adeguano quasi alla perfezione al materiale raccontato. La regia di Fernando Meirelles (The costant gardener – La cospirazione, 2005; Blindness – Cecità, 2008) risulta dinamica, con scelte mai banali di inquadratura che passano dal crudo realismo all'esercizio di stile vero e proprio, come la macchina da presa che segue la traiettoria dei proiettili. In sintonia con il proprio montatore prediletto, César Charlone, Meirelles sceglie una sintassi veloce, in cui i piani spesso si sovrappongono e le ellissi temporali vengono risolte con didascalie indicatrici che annunciano le varie “storie nella storia”, che siano luoghi o persone.
Il tocco cupo, da ambientazione criminale, ma allo stesso tempo così latino nella scelta dei colori è merito della buona fotografia di Daniel Rezende, mentre la musica folk di Antonio Pinto (L'amore ai tempi del colera, 2007) fa da contraltare ironico alle sequenze più crude, così come il commento del narratore. In sintesi, ottima ed originale resa ambientale.
Il cast è perlopiù formato da attori non professionisti o poco noti al di fuori del Brasile, e risulta molto ben amalgamato per quanto non ci siano interpretazioni di spicco o personaggi indimenticabili. È però vero che, se il gangster movie americano tende a puntare su una o due figure iconiche (i vari Scarface, Al Capone, Marlowe…), è legittimo che una trasposizione sudamericana del genere si concentri sul racconto corale.
Di fatto, la vera protagonista è Cidade de Deus e le quattro nomination agli Oscar (regia, sceneggiatura non originale, montaggio e fotografia) dimostrano che la compattezza narrativa e visiva c'è, e si fa apprezzare.
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