Il Dottor Strange deve salvare dalle brame di Wanda Maximoff una giovane in grado di viaggiare attraverso gli universi.
Il Dottor Strange deve salvare dalle brame di Wanda Maximoff una giovane in grado di viaggiare attraverso gli universi.
Dal primo film dedicato alla figura di Dottor Strange (2016) di Scott Derrickson, la complessità del Marvel Cinematic Universe si è fatta decisamente più significativa. Dal lato cinematografico, l’introduzione del concetto di multiverso e il suo utilizzo nel recente Spiderman – No way home (2021) e, dal lato seriale prodotti, coevi quali WandaVision e Loki, hanno fornito la base per Dottor Strange nel multiverso della Follia, tanto da poter dire che quest’ultimo sia figlio più delle recenti evoluzioni Marvel che dello stand-alone di sei anni prima. A rappresentare tuttavia una novità ancora maggiore per il ventottesimo film targato MCU è la presenza in regia di Sam Raimi, istrionico quanto indimenticato autore di horror sarcastici quali L’armata delle tenebre (1992) e di film supereroistici quali la prima trilogia di Spiderman (2002 – 2007). La presenza di una figura tanto originale quanto apprezzata da una schiera di spettatori non forzatamente appassionati di Marvel fa di Dottor Strange nel multiverso della follia un prodotto decisamente atipico, che fatica a reggere confronti e collegamenti logici laddove lo si concepisca nell’ambito del MCU, ma allo stesso tempo acquista pregi se considerato come film alieno e a se stante. Evidente, nonché inedita per la Marvel, è l’impronta horror di Raimi, che si ritrova tanto nella cupa inquietudine di certe ambientazioni quanto nel citazionismo ai grandi classici dell’horror, in primis ai film sugli zombie. Altrettanto chiara è la forte accelerazione sul pedale dell’iperrealismo, dell’iperbole e della comicità, sottolineata dal geniale e demenziale cammeo dell’attore-feticcio di Raimi, Bruce Campbell.
Raimi è un regista che si è confrontato, nel corso della propria carriera, sia con le produzioni indipendenti che con i grandi blockbuster: l’abilità nel tenere ben saldi i due approcci in un unico stile coerente si vede anche qui. Scelte brocche delle inquadrature, repentini movimenti di macchina in avvicinamento e jump-scare sorprendentemente efficaci rimandano alla natura ibrida del prodotto e rinnovano l’estetica Marvel, con la seconda metà del film che prende con forza le distanze dalla classica narrazione supereroistica per diventare vero e proprio film di genere. Significativa a tal proposito, fra tutte, è la scena dello zombie posseduto da Strange che esce dalla sepoltura, tanto classico quanto ormai imprescindibile topos narrativo dei film sui morti viventi. In ciò si nota anche l’effettivo doppio effetto sul pubblico. Chi considera il film come prodotto Marvel, non può fare a meno di notarne la curiosa povertà di effetti speciali, il make-up forzato e poco realistico, la generale atmosfera retrò di alcune ambientazioni; chi lo vede in quanto film di Raimi, invece, ne apprezzerà la firma e la capacità di restare entro i binari di un universo trans-mediale così complesso senza rinunciare all’originalità.
Decisamente meno efficace, a tratti addirittura disastrosa, è la sceneggiatura di Michael Waldron.
Il tema del multiverso, al centro del titolo stesso, viene trattato con superficialità e gli snodi narrativi che ne conseguono sono quelli classici di qualsiasi racconto sulle realtà parallele. Particolarmente stucchevole, nonché repentina, è la maturazione del personaggio di America Chavez, mentre sorte migliore non è riservata a quello di Christine Palmer e della sua versione alternativa: il suo dialogo finale con Strange appare troppo telefonato, nel contesto di una sceneggiatura di per sé priva di dialoghi davvero significativi. Entrando nel merito del contesto Marvel, inoltre, si nota la pericolosa tendenza della casa di produzione a giocare con le aspettative per poi risolverle con un finale debole: in tal caso, la morte presunta di Wanda Maximoff potrebbe pure apparire ingiustificata e gratuita agli occhi dei fan. Troppo forzata, persino per il multiverso, è inoltre l’introduzione a sorpresa, e per così breve tempo, degli X-Men. Meno problematiche, ma comunque non eccelse, anche le musiche di Danny Elfman (Dumbo, 2019) e il make-up talvolta impreciso.
Grande pregio del film, invece, sono le interpretazioni dei protagonisti. Cumberbatch riesce a interpretare più versioni del proprio personaggio senza mai scadere nell’autoparodia o nel manierismo, caratterizzando ogni singolo Dottor Strange in modo credibile. La vera punta di diamante del cast è però Elizabeth Olsen, con una prova intensa, tanto inquietante quanto straziante. A lei, per quanto il suo personaggio soffra come altri di una caratterizzazione superficiale, va il plauso maggiore per la buona riuscita del film.
Il quale, come si è detto, rappresenta una creatura a propria volta doppia e di difficile valutazione, esattamente come il multiverso di cui tratta. Tuttavia, prescindendo dalla sceneggiatura che reca su di sé tutte le difficoltà del conciliare questa storia con il canone Marvel, si percepisce come Raimi, nel tornare al cinema per il grande pubblico, non abbia perso il proprio marchio di fabbrica e, soprattutto, l’evidente divertimento autoriale che traspare in ogni momento del film.
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