Una ragazza in fuga da malavitosi si rifugia in un paesino sperduto. Dovrà conquistarsi la fiducia dei pochi, ambigui, abitanti.
Una ragazza in fuga da malavitosi si rifugia in un paesino sperduto. Dovrà conquistarsi la fiducia dei pochi, ambigui, abitanti.
Primo capitolo di un'ideale trilogia sugli Stati Uniti d'America, assieme a Manderlay (2005) e La casa di Jack (2019), Dogville rappresenta uno dei film più estremi, a livello di tensione e sperimentazione, del regista e sceneggiatore Lars von Trier (Le onde del destino, 1996; Melancholia, 2011). Certamente potrebbe apparire futile tentare una graduatoria, quanto a violenza, rifiuto delle convenzioni, autorialità provocante, dei film di von Trier: è indubbio tuttavia come Dogville abbia, intrinseco nel proprio stesso impianto, qualcosa di dirompente. Del manifesto Dogma 95, che pare ideato da von Trier soltanto per poi sconfessarlo e metterne a nudo l'impossibilità, si ritrovano alcune tipiche tecniche di messa in scena e ripresa: la macchina a mano, l'essenzialità degli elementi, il crudo realismo dello sguardo cinematografico. D'altra parte, la scenografia stessa di Simone Grau è quanto di più illusorio, teatrale e anti-realistico possa esservi: non vi è mimesi, ma trasformazione del cinema da medium caldo a medium freddo, ovvero quello che necessita di sforzo immaginativo dal parte del fruitore per ricostruire l'intero contenuto. Il villaggio di Dogville, interamente disegnato al suolo, oltre che rimandare all'immaginario teatrale e invocare il ruolo dello spettatore, ha una funzione narrativa ben precisa: creare un panottico in cui ciascuno si controlla, giudica, accusa vicendevolmente. In una specie di architettura kafkiana, in cui il senso di condanna e di colpa persiste immutabile, l'assenza di mura consente di sottolineare il cuore nero, nascosto ma allo stesso tempo evidente, dell'essere umano.
A livello di montaggio, a cura di Molly Marlene Stensgård, gli stacchi rapidi e discontinui tipici del cinema di von Trier sono sempre molto efficaci a livello espressivo, per quanto qui molto spesso raggiungono una sembianza di amatorialità. Il problema di approccio con il cinema di von Trier coinvolge spesso la sua sospensione della grammatica cinematografica, qui presentissima per quanto, va segnalato, non sempre coerente. Se infatti l'espediente, nel montaggio audio, di suggerire la presenza di alcuni oggetti di scena invisibili attraverso campioni sonori risulta in linea con la teatralità summenzionata, tale tecnica viene adottata solo per alcuni momenti (l'apertura delle porte) e non per altri: una maggior radicalità in questo senso avrebbe forse giovato all'operazione di von Trier che in quanto estrema dovrebbe necessitare proprio di solidità. Il fio che paga il film è quello di rinunciare a molti degli elementi che dovrebbero distinguerlo da una ripresa teatrale (si pensi anche al color grading palesemente fittizio delle luci): la sospensione dell'incredulità richiesta è maggiore del previsto, di conseguenza la soglia di sbarramento al film è di alto livello. Questo il motivo per cui von Trier, parafrasando ironicamente Friedrich Nietzsche, dà spesso l'impressione di essere “autore, troppo autore”.
L'altro grande punto di forza del film, sia a livello di significato che di efficacia narrativa, è proprio una sceneggiatura in grado di sviluppare un'idea ben precisa della natura immorale dell'uomo.
Come spesso in von Trier, la feroce satira politica (geniale a proposito l'inserimento finale di Young americans di David Bowie) si alterna a un nichilismo filosofico di matrice nicciana:
la parabola di Grace, del proprio realizzare il non senso del perdono, rimanda all'idea di violenza creativa, miseria della morale (in quanto morale per miseri) e ribaltamento delle ipocrisie proprie del filosofo summenzionato. Pur essendo pregna di significati e stratificazioni interpretabili, la storia non rinuncia al ritmo narrativo: funzionano infatti la costruzione graduale del contesto e del sistema di relazioni fra personaggi, il climax di orrore e sofferenza e anche i colpi di scena degni del più solido film thriller. La durata quasi estenuante, tutt'altro che superflua, dà l'impressione di assistere a un lungo rito di iniziazione e passaggio, per la protagonista, dall'Età dell'innocenza a quella dell'Esperienza (da agnello a tigre, per dirla con William Blake): ben visibili nella trama sono infatti gli stadi di un percorso di maturazione interiore, quali il rifiuto della Legge del Padre, l'amore e l'inganno, il trauma e la sintesi. Altro grande modello, peraltro, è quello del mito e della tragedia greca, che avvicina Dogville a un film dal titolo assonante, Kynodontas di Yorgos Lanthimos (2009).
Tanto minimale quanto complesso, violento al limite del respingente eppure non privo di sardonica ironia, Dogville deve la propria riuscita anche alle performance degli attori, in grado soprattutto di recitare entro una scenografia praticamente da immaginare. Nicole Kidman riesce a rendere alla perfezione gli stadi evolutivi ed emotivi del suo personaggio, così come Paul Bettany è perfetto nel ruolo di Tom, ambigua e detestabile rappresentazione dell'uomo medio, mediocre, egoista. A impreziosire il cast, oltre ad alcuni attori di culto in ruoli secondari quali Lauren Bacall, è la voce narrante di John Hurt: che, in un lodevole doppiaggio italiano, viene resa dal grande mattatore teatrale Giorgio Albertazzi. Come nota finale, si sottolinea il ricorso così tipico in von Trier di un brano classico (Cum dederit di Antonio Vivaldi in tal caso) a opporre l'abisso più profondo alle estreme vette dell'operato umano, concatenati in un dualismo inscindibile.
Caricamento modulo