Ad un importante regista teatrale, da anni in lutto dopo la perdita della moglie, viene imposta una giovane autista durante la produzione di uno spettacolo che potrebbe risollevarlo dal suo blocco esistenziale.
Ad un importante regista teatrale, da anni in lutto dopo la perdita della moglie, viene imposta una giovane autista durante la produzione di uno spettacolo che potrebbe risollevarlo dal suo blocco esistenziale.
L'esordio alla ribalta internazionale del regista nipponico Ryūsuke Hamaguchi era avvenuto solo pochi mesi prima dell'uscita di Drive my car, con la vittoria nel 2021 del Gran premio della Giuria a Berlino per Il gioco del destino e della fantasia. In quest'ultimo, film a episodi incentrati sui temi quali le relazioni, il risentimento e gli incroci del caso, è già evidente il tocco dell'autore, delicato anche nell'affrontare tematiche crudeli e capace di rinvenire la poesia nella quotidianità, lo straordinario nelle relazioni comuni. In Drive my car, opera indubbiamente più complessa tratta da un racconto di Haruki Murakami, il lutto diventa l'oggetto principale di una lunga catarsi risolvibile proprio nell'atto relazionale di confidenza reciproca. Il protagonista, abituato alla finzione sia per mestiere che per salvare il proprio matrimonio, supera il proprio trauma attraverso il dialogo veritiero con una persona solo apparentemente distante da lui. L'esercizio a doppio senso di confessione e ascolto avviene nell'automobile che è allo stesso tempo confessionale e mausoleo, rifugio in cui Yūsuke si rinchiude per ascoltare le cassette della moglie e fuggire da se stesso e punto di incontro con un'alterità che lo convince all'apertura. La vettura è allo stesso tempo il mezzo che lo porta a spostarsi verso Hiroshima, rappresentante un nuovo inizio, e verso la casa d'infanzia, che sta a significare l'accettazione del passato.
Nella sceneggiatura di Hamaguchi e Takamasa Oe, costruita con logica binaria sul tema portante del doppio, è inoltre evidente un gioco di specchi alternativo alla coppia Yūsuke/Misaki e al luogo simbolico della macchina: si tratta dello scontro-dialogo fra Yūsuke e Takatsuki, il giovane attore chiamato a sostituire il primo in un ruolo per lui significativo e il cui ribaltamento finale simboleggia l'elaborazione definitiva del lutto. Terreno di azione di questo secondo rapporto è il teatro, spazio della finzione e dell'immedesimazione per eccellenza:
riprendendo il connubio fra vita e rappresentazione tipica anche di tanto cinema europeo, da Ingmar Bergman a Federico Fellini, Hamaguchi investe la sua opera di una lettura anche meta-narrativa incentrata sulla necessità di raccontare per potere accettare la realtà.
Le modalità del racconto prediligono i tempi dilatati e i dialoghi rispetto all'evidente linearità della storia e alla limitatezza del sistema di personaggi: gli scambi di battute risultano ben calibrati e mai superflui, riuscendo anche evocativi nelle scene emotivamente più rilevanti. I pochi personaggi principali sono descritti alla perfezione nelle loro individualità, nei loro pregi e nelle loro zone d'ombra: anche il carattere di Oto, che pure rimane in scena solo per i primi quaranta minuti di film, risulta delineato e non inferiore agli altri profili. Come in una pièce teatrale, la parola e i personaggi sono le principali vettori di significato in Drive my car, a scapito talvolta del ritmo narrativo e della gestione dei tempi: che il film sia selettivo dal punto di vista della complessità e della durata, risulta evidente fin dalla scelta di inserire i titoli di testa solo dopo i primi tre quarti d'ora. Intellettuale ma non rarefatto, semplice negli intenti ma non banale, il racconto denota una particolare sensibilità che è punto di incontro fra l'autore del soggetto, Murakami, e il regista del film.
Proprio lo sguardo della cinepresa nobilita e scandisce i lunghi momenti dell'opera, con una semplicità visiva che però non corrisponde mai a mancanza di elaborazione: l'attenzione di Hamaguchi è interamente dedicata ai personaggi e ai loro rapporti reciproci, senza che vi siano artifici superflui a distoglierne il focus. La cinepresa insiste sui primi piani nelle scene di confessione e di intimità e, in situazioni di dialogo e confronto fra due interpreti, tende a dare pari spazio a entrambi nell'inquadratura. La regia presenta così un equilibrio sintattico e semantico che sottende la piena capacità di adeguarsi alla materia narrativa e nobilitarla. Ottime anche le interpretazioni principali, mentre risultando talvolta superflue, talvolta fuori luogo le musiche di Eiko Ishibashi.
In definitiva, Drive my car si dimostra una piccola opera di sicuro valore, degna di assurgere ad instant-cult e capace di essere apprezzata, grazie al suo linguaggio universale, anche in Occidente. La sua effettiva selettività e i riferimenti colti all'arte e al teatro di cui sono intessuti i dialoghi deve indurre non a credere che si tratti di un'opera criptica, ma ad apprezzare l'eleganza sottile di un autore fra i più interessanti del recente cinema nipponico.
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