Un problema familiare costringe un giovane studente a tornare dalla madre tossicodipendente e a ripercorrere le tappe della sua difficile adolescenza.
Un problema familiare costringe un giovane studente a tornare dalla madre tossicodipendente e a ripercorrere le tappe della sua difficile adolescenza.
A due anni di distanza da Solo: A Star Wars Story, Ron Howard (A beautiful Mind, 2001; Cinderella Man – Una ragione per lottare, 2005) torna dietro la macchina da presa con Elegia Americana, nel quale traspone l'omonimo libro di memorie del 2016 di J. G. Vance. In questo film Howard punta su un suo vecchio cavallo di battaglia: sceglie di raccontare una storia vera con l'intento di far commuovere lo spettatore, concludendo l'esperienza con un finale tendenzialmente melenso. Per quanto nel corso degli anni questa componente nel suo cinema si sia consolidata, al punto quasi di accettarla, con Elegia Americana Ron Howard esagera e ne tira fuori un film talmente retorico, sentimentale e bislacco da risultare nettamente insufficiente. Oltre alla sceneggiatura, anche la colonna sonora di un'irriconoscibile Hans Zimmer (Inception, 2010; Il gladiatore, 2000) e i dialoghi cooperano per conferire alla pellicola questo tono molto caro a Ron Howard e poco gradito al pubblico.
Il film si apre con un flashback del giovane J. D. durante il quale vengono presentati i membri della famiglia Vance e le loro relazioni; quest'introduzione, oltre ad essere piena di frasi ridondanti sulla bellezza del sogno americano e della fede, è del tutto sconnessa con il resto del film, sia a livello narrativo che contenutistico. Non ha un legame con i successivi flashback e mostra un quadro incoerente dei rapporti familiari: ciò che si può dedurre dei Vance alla fine di questa scena è che siano una famiglia lievemente contrastata ma molto unita, cosa che verrà smentita dal film stesso. Inoltre, in questo flashback viene presentato un altro piano narrativo: quello della gioventù della nonna. Con un salto di quattordici anni si arriva al presente, portando a tre il numero dei piani narrativi, ognuno dei quali viene visivamente rappresentato in una maniera diversa: il presente ha una fotografia realistica, quasi classica; i flashback sono contrassegnati da dei toni vintage e vivaci; le scene sulla gioventù della nonna non hanno nessun tipo di identità visiva. Infatti, quest'ultimo livello viene inserito in maniera del tutto casuale e sommaria nel corso della pellicola e con schemi visivi differenti, rendendo i vari frammenti ancora più inconsistenti. Ad eccezione di quello del presente, nel resto del film il comparto fotografico, a cura di Maryse Alberti (The wrestler, 2008; Collateral Beauty, 2016), è di scarsa qualità, così come molte delle scelte registiche di Ron Howard, decisamente banali e confusionarie. Ad esempio, Howard ricorre spesso a delle soggettive del protagonista illogiche. Nonostante la descrizione della messa in scena non sia delle migliori, essa non rappresenta il difetto peggiore del film. Infatti, ciò che non convince affatto sono la sceneggiatura e i personaggi, che hanno penalizzato l'unico aspetto positivo del film, ovvero la recitazione di Amy Adams e Glenn Close, quest'ultima candidata all'Oscar come Miglior attrice non protagonista. Le loro performance, in particolare quella della Close, hanno ottenuto particolare rilevanza anche grazie all'arduo lavoro sul trucco ad opera di Eryn Krueger Mekash, Patricia Dehaney e Matthew Mungle, che hanno dovuto replicare realisticamente i volti dei veri personaggi. Andando al succo della vicenda, l'idea di ritrarre una realtà americana poco raccontata nella storia del cinema, ovvero quella dei montanari degli Appalachi, e, a un livello più profondo, di raccontare quanto sia difficile allontanarsi da una persona cara è potenzialmente interessante. Lo sviluppo di questi due elementi e la loro trasposizione in opera cinematografica sono stati la loro rovina. Il personaggio di J. D. a tratti si dimostra snervante a causa della sua continua oscillazione dichiarata più volte tra il volere stare con sua madre e il voler partecipare al colloquio, facendo svanire qualsiasi tipo di empatia. I personaggi di contorno sono sviluppati talmente poco da non giustificare la loro presenta all'interno del film. Inoltre, la messa in scena di alcuni personaggi che dovrebbero rappresentare le diverse istituzioni con cui si confronta e si scontra J.D. sono delle vere e proprie macchiette: i commensali alla cena dei colloqui, di provenienza sociale presumibilmente alta, sono snob e strafottenti nei confronti dei contadini; i poliziotti sono estremamente severi, quasi rappresentati come degli antagonisti; i medici non escono fuori dal protocollo, sono intransigenti, cinici e, ovviamente, pronunciano le frasi fatte tipiche di queste situazioni come “se potessi fare di più lo farei”, “ho le mani legate”, “questo è il regolamento” e “non posso fare altro”. L'utilizzo così scadente dei dialoghi azzera l'enfasi in molte scene climax del film.
In conclusione, con Elegia americana Ron Howard tocca un punto veramente basso all'interno della sua carriera. L'unica consolazione è quella di sperare nella prima vittoria agli Oscar di Glenn Close, che conta otto candidature.
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