Nell'afosa periferia romana i figli di tre famiglie scoprono la maturità e, assieme, la durezza e l'orrore che le esistenze dei genitori celano loro.
Nell'afosa periferia romana i figli di tre famiglie scoprono la maturità e, assieme, la durezza e l'orrore che le esistenze dei genitori celano loro.
Alla seconda prova dietro la macchina da presa, dopo La terra dell'abbastanza nel 2018, i fratelli Damiano e Fabio D'Innocenzo, già sceneggiatori di Dogman (2018) di Matteo Garrone, firmano una favola cupa e nichilista che è stata capace di conquistare la Berlinale 2020. Se il loro esordio autoriale era figlio della tradizione impegnata di Pier Paolo Pasolini e del troppo dimenticato Claudio Caligari, Favolacce sembra slegarsi dai modelli per cercare un linguaggio più universale, per quanto sempre connotato di romanità (realistica e materiale, mai folkloristica). Favolacce è una creatura inusuale nel panorama produttivo italiano: le villette a schiera di Spinaceto, geometriche e inquietanti, sembrano sovrapporsi a quelle della provincia americana di David Lynch; le modalità narrative, la spietatezza, l'impressione complessiva, rimandano a Michael Haneke mentre l'aspetto poetico, soprannaturale, fiabesco e orrorifico allo stesso tempo, alla recente produzione di Ali Abbasi.
È innanzitutto dalla sceneggiatura, vero oggetto del premio al Festival di Berlino, che si comprende la forte volontà autoriale dei fratelli D'Innocenzo.
Il termine favolaccia, di natura gergale, rimanda sia all'idea di favola che a quello di volgarità, squallore, cattiveria.
Come ogni favola, infatti, i personaggi non hanno bisogno di grande approfondimento ma si limitano ad essere funzioni narrative di una storia che prosegue; le tappe, secondo la narratologia di Vladimir Propp, sono sancite da riti di passaggio (il sesso, nel caso del film), guardiani delle soglie (la ragazza madre), antagonisti che periscono ed eroi che trionfano. Qui però vi è totale assenza di trionfo: il mondo degli adulti, con le sue storture, pesa come condanna atavica sulle vite dei figli. I quali, costretti, picchiati, abbandonati e tuttavia dotati di una irriducibile curiosità, mista a timore per la vita, non possono fare altro che ereditarla e pagarne il fio: Spinaceto diventa una sorta di Aldilà infernale, abitato di non-morti (i genitori) e di condannati a morte (i figli). È raro che denuncia sociale, riflessione antropologica e incubo lucido vadano così di pari passo.
La gestione delle tante, diverse, linee narrative è spesso frammentata. Il che viene ampiamente giustificato dal fatto che il punto di vista è quello di un bambino che scrive un diario: tale livello di mediazione fra pubblico e fatto narrato spiega quelli che apparentemente potrebbero sembrare difetti, incongruenze dispersioni. Similmente, quanto alla trattazione dei personaggi, per quanto spesso appunto solo delineata, bisogna considerare come l'espediente del narratore interno dia adito spesso a una (sadica) ironia, intesa come discrasia fra realtà e rappresentazione. Alle volte ciò che lo spettatore vede non corrisponde a ciò che viene detto (la distruzione della piscina da giardino), altre volte certe caratteristiche dei personaggi sono accentuate fino a diventare veramente caricature fatte da bambini: la ragazza madre, nuovamente, viene esagerata fino al grottesco nel suo rappresentare l'atteggiamento infantile verso la sessualità, che è sempre un misto di desiderio, timore, imbarazzo e divertimento.
Il tono della sceneggiatura, sospesa fra crudo verismo e allegoria allucinata, si ritrova più efficacemente nella regia, capace di creare uno stile visivo intrigante e originale. L'utilizzo dei grandangoli, la gestione dei campi e dei fuori-campo, il ricorso a campi lunghi, distanziati e di notevole durata, consente sempre di marcare il sottile confine fra ciò che accade realmente, spesso di nascosto, e ciò che accade nella favola. Di nuovo, a suggerire che il diario di Dennis non voglia, o non possa, raccontare tutto. La fotografia, di Paolo Carnera (Suburra, 2014), ha il pregio, alternando toni lividi e afosa luce atmosferica estiva, di rendere alla perfezione sia l'ambientazione che la sottile inquietudine crescente: assente, tuttavia, è il tentativo di mutare le scelte cromatiche e fotografiche con l'avanzare del climax tensionale, cosa che avrebbe consentito un accompagnamento più efficace allo spiazzante, drammatico finale.
Di tutte le interpretazioni, infine, tre spiccano in particolar modo: innanzitutto Elio Germano, la cui bravura si esprime al meglio nel long-take ravvicinato in cui attende che la moglie scopra della morte dei figli. La vicinanza della macchina da presa consente peraltro di sottolineare l'elaborazione interna del conflitto attoriale che diventa, man mano, fisica ed evidente. In secondo luogo, un plauso va alla coppia Gabriel Montesi – Justin Korovkin. Il primo, lungi dallo scadere in facili caratterizzazioni stereotipe, gioca al meglio sul suddetto filo dell'ironia: da padre un po' troppo entusiasta si rivela individuo sofferente, incapace alla pari degli altri genitori del film e compromesso da un passato che ritorna. Il giovane Korovkin continua invece sulla falsariga, ben riuscita, del suo precedente personaggio in The nest (Il nido) (2019). Purtroppo le interpretazioni in generale soffrono di una qualità dell'audio davvero pessima che a tratti rende difficile l'ascolto: una grossa pecca, purtroppo, di cui spesso viene accusato il cinema italiano. La cui vera potenzialità il film dei fratelli D'Innocenzo, cupa perla di realismo magico, ha senza dubbio risollevato e ribadito anche all'estero.
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