Un pastore di una piccola chiesa, tormentato dal suo passato, perde man mano il controllo di sé stesso in seguito a un incontro particolare.
Un pastore di una piccola chiesa, tormentato dal suo passato, perde man mano il controllo di sé stesso in seguito a un incontro particolare.
Paul Schrader è un cineasta a tutto tondo, generalmente ricordato poiché assiduo sceneggiatore di un altro maestro del cinema, Martin Scorsese (The Irishman, 2019), con cui ha collaborato più volte nel corso di anni. L'opera che ha consacrato Schrader definitivamente a critica e pubblico è sicuramente Taxi Driver (1976), un viaggio introspettivo nella mente di un uomo tormentato dal suo passato e in procinto di esplodere. Simile è l'approccio psicologico che sceglie di applicare al personaggio di Ernst Toller di First Reformed, un ex cappellano militare ora pastore in una piccola chiesa poco frequentata. Insieme al capolavoro scorsesiano, anche altre opere di autori come Ingmar Bergman e Robert Bresson vengono ampiamente saccheggiate come primordiali ispirazioni, rispettivamente con Luci d'inverno (1963) e Il diario di un curato di campagna (1951). Tuttavia, quello che Paul Schrader si limita a fare in relazione ai due film sopra citati è relativo unicamente alla creazione di un'ambientazione mondana cupa, presentando una figura ecclesiastica in crisi con sé stessa e con il mondo che la circonda, proponendo infine un'evoluzione di semantica completamente differente da qualsiasi pellicola precedente, e personalissima nel suo svolgimento.
Il massacro interiore del protagonista viene orchestrato da una sceneggiatura fredda e chirurgica nella sua esecuzione di intenti, che pone domande esistenziali e rilegge in chiave cristiana l'emergenza ambientale senza risultare forzata o banale.
Le atmosfere cupe e i tempi dilatati, funzionali a declinare l'introspezione psicologica del pastore, forniscono luogo e modo per il compimento della sua drammatica scalata esistenziale, condivisa integralmente dallo spettatore, in continua empatia.
A rompere la quotidianità dell'uomo, ed eventualmente a salvarlo da un'ineluttabile catastrofe naturale è l'affetto (della donna, in questo è nodale il personaggio di Amanda Seyfried), il calore umano, la carne, che, per quanto effimera essa sia, è in grado di restituire speranza e redenzione anche al più infedele dei pastori.
Attenzione, la nobiltà del pensiero critico semantico, per quanto immaginabile, non è necessariamente di facile comprensione, portando così a considerarlo come un'anomalia filmica. A questo proposito un messaggio più diretto, a prima vista oltremodo pretenzioso, avrebbe potuto garantire una più efficace comunicabilità per un pubblico meno avvezzo.
Risulta eccezionale invece la trasposizione visiva, in particolare registica, del dramma consumato della figura del pastore. Paul Schrader riporta consapevolmente i suoi personaggi su schermo, figure vaganti in ampie distese desolate come corpi persi senza bussola, circoscritti da un claustrofobico aspect ratio 1.37:1, un particolare rapporto 4:3 che il regista sceglie di adottare per, a suo modo, “risaltare al meglio la figura umana all'interno dell'inquadratura”. In questo senso impiega una regia statica e simmetrica, che esaltando l'orizzontalità di una scenografia asettica e spartana, tenta di imporre un ordine al caos del mondo. Oculata è la scelta dei punti macchina e l'uso della profondità di campo, elementi che rendono possibile anche una narrazione emotiva differente a seconda dell'utilizzo che se ne fa. Difatti, Paul Schrader privilegia da subito la camera fissa, tuttavia adopera il movimento come presa di consapevolezza del protagonista, proponendo soluzioni registiche più dinamiche (il finale emblematico per esempio) unicamente nei momenti più sconvolgenti. La fotografia, cupa, in contrasto con il luminoso bianco della splendida chiesa in stile coloniale olandese, favorisce una manifestazione ambigua della bellezza terrestre, meravigliosa e inquinata allo stesso tempo, e interviene passo passo per ispessire e oscurare il volto del pastore.
Poco condivisibile l'utilizzo particolare delle musiche, che tenta di massimizzare la tragedia psicologica del personaggio aumentando man mano i suoni sinistri, rivelando tuttavia un risultato soffocato, sia per un'intensità eccessivamente bassa, sia per un'altezza altrettanto minima.
Quanto alle interpretazioni, emerge la maestosa prova attoriale di Ethan Hawke (Before Sunrise, 1995; Boyhood, 2014) nel ruolo principale, assistito da una favolosa Amanda Seyfried (Mank, 2020), nel ruolo di Mary, giovane donna religiosa, reale punto di svolta per la presa di coscienza del pastore Toller.
Ciò che First Reformed appare a fine visione è autodistruzione, autolesionismo: una combinazione tra la frustrazione di chi vorrebbe reagire e l'inquietudine di chi ha capito che non c'è alcuna speranza; una pellicola contorta che non afferma nulla di chiaro sulla natura assoluta di un dio, né della sua esistenza, ma semina l'idea che dio, ad oggi, non ha importanza, e la nostra estinzione imminente dipende unicamente da noi stessi.
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