Un padre e una figlia lottano per sopravvivere nello spazio profondo in uno stato di completo isolamento.
Un padre e una figlia lottano per sopravvivere nello spazio profondo in uno stato di completo isolamento.
La fantascienza è il genere che più di tutti, per assurdo, si prefigge di raccontare sentimenti prettamente umani, terrestri. Questo accadeva già in uno dei progenitori del genere: Solaris (1972), di Andrej Tarkovskij, nel quale è medesima l'idea di utilizzare la fantascienza unicamente come pretesto per riflessioni più profonde e cosmiche. Anche High Life (2018), diretto da Claire Denis (Chocolat, 1988), ripercorre quei passi, raccontando, in una salsa tutt'altro che innovativa, il rapporto tra l'uomo, creatura fallimentare, e il suo futuro, sfuggente ma ottimista. La storia ruota intorno a Monte e Willow, padre e figlia, unici sopravvissuti di una dubbia missione nello spazio. La narrazione, non lineare, ci permette di comprendere in che modo gli altri membri dell'equipaggio della nave siano morti, e perché.
Scomodando nuovamente capolavori del passato, è doveroso parlare dell'opera mastodontica di Stanley Kubrick (Barry Lyndon, 1975), 2001: Odissea nello spazio (1968), che non può non influenzare, in modo imprescindibile, la maggioranza dei film fantascientifici ad essa successivi.
I rimandi al film kubrickiano sono tanto espliciti quanto pretestuosi, e il messaggio trasmesso, snaturato dal suo primordiale impiego (la natura umana, la conoscenza, la rinascita), viene rappresentato superficialmente, volendo offrire una nuova chiave di lettura (un destino felice), uscendone tuttavia con le ossa rotte.
C'è inoltre da sottolineare, che a prescindere dai confronti, la sceneggiatura si dimostra ripetutamente confusa nello sviluppo dei personaggi e della storia in sé. Le nauseanti scene di sesso, per quanto correlate a una condizione umana primordiale e associate a una situazione di costrizione, faticano nell'offrire una chiara analisi antropologica, maggiormente approfondita, per esempio, in un film come The Lighthouse (2019), nel quale, sempre un Robert Pattinson nel ruolo di protagonista, si ritrova a decifrare numerosi problemi che un'esistenza all'insegna dell'isolamento potrebbe generare.
In aggiunta, l'intera trama si sorregge unicamente sul ruolo della dott.ssa Dibs (desiderosa di ricreare ciò che aveva annientato sulla Terra), personaggio teatralmente ostentato e in fondo troppo debole per sostenere un'idea di cinema così ambiziosa. Come è successo per Ad Astra (2019) di James Gray, anche un racconto filosofico-fantascientifico inefficace può tuttavia essere rappresentato con grande maestria estetica. In High Life, la potenza registica è sicuramente meno intensa a paragone con il modello presentato da Gray, ma consegue ottimamente gli obiettivi prefissatosi, inquadrando in pieno il senso della pellicola. Il montaggio ha il grande fardello di accompagnare lo spettatore in un racconto a ritroso, e con efficacia lo conduce nella storia attraverso immagini fredde, fotografate ottimamente da Yorick Le Saux (Piccole Donne, 2019). Le scenografie surreali degli interni e degli esterni della nave sono particolarmente originali, rivisitate quasi in chiave rétro presumibilmente a causa del budget esiguo del film, ma perfettamente conformi ai temi trattati. Unica postilla sulla scelta di alternare le proporzioni di immagine: non risultano assolutamente funzionali questi cambianti, che si propongono di esaltare il claustrofobico ove serviva, o il contrario, senza tuttavia riuscirci davvero, nemmeno in una ricerca più inconscia dello spettatore.
Le interpretazioni degli attori sono nel complesso positive, e spicca per ovvie ragioni Robert Pattinson (Tenet, 2020), grande protagonista di questi ultimi anni. Un'ultima nota va destinata a favore dell'audio, caratterizzato da un missaggio sonoro e un sonoro tecnicamente eccellenti; questo grazie a un campionamento in presa diretta dei suoni preciso, e un'attenzione particolare ai rumori ambientali: rigorosi, studiati, definiti.
Complessivamente High Life è un film pseudo autoriale, deludente nella sostanza, e che fa del reparto visivo la sua più grande virtù, dimenticando per strada quel sentimento di ambigua identità ed esistenza da cui l'uomo dovrebbe essere perennemente tormentato.
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