L'ascesa, la caduta e la risalita della casa di moda italiana Gucci, sullo sfondo di una guerra familiare fatta di tradimenti e di uno spietato omicidio.
L'ascesa, la caduta e la risalita della casa di moda italiana Gucci, sullo sfondo di una guerra familiare fatta di tradimenti e di uno spietato omicidio.
Ad appena due mesi dall'uscita di The Last Duel (2021), Ridley Scott (Blade Runner, 1982; Il Gladiatore, 2000) torna in sala con una saga familiare fatta di inganni e abusi di potere, che guarda più alla struttura drammatica shakespeariana che alla fedeltà storica. Ispirato alla vicenda della nota famiglia Gucci, il racconto è incentrato soprattutto sulla scalata di Maurizio ai vertici dell'azienda sotto la guida di Patrizia, ambiziosa e determinata Lady Macbeth in salsa italiana. Tratto dal libro La saga dei Gucci. Una storia avvincente di creatività, fascino, successo, follia scritto da Sara Gay Forden e pubblicato nel 2001, House of Gucci è un film che risente particolarmente della visione americana e stereotipata della cultura italiana. Non vi si riscontra, infatti, uno studio e una ricerca approfondita della realtà dell'Italia degli anni '70 e '80. Al contrario, ciò che emerge dal film è una rappresentazione di personaggi e scenari ricalcati sullo stereotipo dei drammi hollywoodiani di ambientazione italoamericana: se i protagonisti non si fossero chiamati Gucci ma Corleone, il risultato non sarebbe variato in modo significativo. Una patina di facile finzione hollywoodiana avvolge l'intera storia, sia narrativamente che visivamente: ne è un esempio la casa dei Reggiani che assomiglia più ad una tipica villetta statunitense. Ciò che Scott era riuscito ad evitare con il suo ultimo capolavoro di ambientazione medievale, ovvero la mancanza di originalità e la pigrizia nel reinterpretare un contesto storico, grava irrimediabilmente su House of Gucci.
Il film non ricostruisce i fatti in modo dettagliato ed è poco fedele alla consecutio temporum degli eventi e alla veridicità dei luoghi. La produzione americana sembra aver voluto creare un prodotto confezionato per il pubblico e per il mercato statunitense, peccando a tratti di superbia e di poco rispetto, con una traduzione culturale superficiale, non interessata alla cultura di destinazione. Con il suo ritmo lento, il film non riesce ad avere un'impostazione coerente e la storia spesso si disperde in passaggi superficiali e senza pathos, complice anche l'eccessiva lunghezza.
La sceneggiatura, curata da Becky Johnston e Roberto Bentivegna, non restituisce la giusta caratterizzazione psicologica ai personaggi. Il torto maggiore viene fatto a quello di Patrizia Reggiani, che risulta controverso ma non approfondito nelle sue sfumature, a tratti inutilmente folle e ingiustificato. Eccessiva e fuori contesto è poi la rappresentazione di Paolo Gucci, ritratto come una macchietta al limite del comico. I dialoghi, inoltre, appaiono artificiosi, prevedibili e spesso esasperati.
La storia, pertanto, risulta depotenziata: l'omicidio è quasi marginale e la vicenda psicologica non viene approfondita.
La fotografia di Dariusz Wolski (Il Corvo, 1994) appare desaturata, con colori spenti che tendono quasi al grigio. La regia di Scott, solitamente robusta per quanto mai troppo distintiva, non offre invenzioni interessanti nell'aspetto più propriamente visivo ma sceglie di mettersi principalmente al servizio del cast, formato da attori di spicco. Sono proprio gli interpreti a rappresentare l'unico vero punto di forza del film, non sufficiente tuttavia a risollevarne gli esiti. Adam Driver, con la sua interpretazione misurata, evita di cade in facili cliché, mentre l'istrionico Al Pacino è convincente e restituisce bene il cinismo del suo personaggio. Lady Gaga, sulle cui spalle si regge pressoché l'intero impianto del film, compie un apprezzabile lavoro mimetico sul personaggio di Patrizia e, come anche gli altri comprimari, dimostra un notevole impegno a fronte di una scrittura che, come detto sopra, penalizza la caratterizzazione dei personaggi. Gli ottimi costumi, curati e studiati nei minimi dettagli per ciascuno dei ruoli, contribuiscono a loro volta a risollevare l'altrimenti insufficiente descrizione dei protagonisti.
La colonna sonora a cura di Harry Gregson-Williams (Shrek, 2001), infine, é composta troppo prevedibilmente da canzoni sia italiane che straniere, creando un effetto alienante. Musica pop e opere liriche risultano spesso sconnesse tra loro e decontestualizzate, dando adito a un fastidioso effetto déjà vu e riassumendo così proprio i principali del film.
In conclusione, House of Gucci prende le mosse da una storia potenzialmente affascinante, fatta di ambizione, amore e potere che si intrecciano fino a diventare distruttivi e riesce a sprecarne i presupposti, mai sfruttati in maniera ottimale ed efficace. L'impressione è che l'alone di interesse creatosi attorno al film sia basato unicamente sull'importanza dei nomi coinvolti e sull'ambientazione glam del soggetto: la sua inconsistenza di fondo appare come uno schiaffo al precedente The Last Duel che, non godendo di altrettanto sforzo promozionale, si è rivelato un insuccesso in sala a fronte di una qualità cinematografica nettamente superiore.
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