La vicenda di un ragazzino emarginato e ribelle fra famiglia, scuola e riformatorio.
La vicenda di un ragazzino emarginato e ribelle fra famiglia, scuola e riformatorio.
Esordio strabiliante di François Truffaut, al tempo acceso critico dei Cahiers du cinéma e autore di cortometraggi, I 400 colpi (equivalente francese del nostro «fare il diavolo a quattro») è indicato come il film fondativo della Nouvelle vague assieme al coevo Hiroshima non amour di Alain Resnais e Fino all'ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard. Proprio il confronto fra quest'ultimo e l'amico e collega Truffaut ci aiuta a comprendere le due direzioni essenziali di quel movimento di cineasti giovani e indipendenti che, ispirandosi sia al neorealismo italiano che alla Hollywood dei registi-autori, contribuirà a una potente rivoluzione nel cinema e nell'immaginario mondiale. Da un lato, con Fino all'ultimo respiro, si ha la provocatoria volontà di denudare i meccanismi della sintassi cinematografica (ma anche della semantica di genere, noir in tal caso) in un continuo gioco di rimandi, esperimenti, scherzi semiotici; dall'altro, con I 400 colpi, si rende invece evidente la necessità di guardarsi alle spalle, riprendendo i grandi modelli, per inventare un cinema personale, militante, di forte impatto realistico e poetico. L'aspetto personale e autoriale risiede nel fatto che il soggetto costituisce il primo capitolo della saga autobiografica di Antoine Doinel, che ritornerà in altri quattro film fra cui Baci rubati (1968). I 400 colpi, raccontandone l'infanzia, testimonia peraltro la delicata e attenta passione di Truffaut per il mondo dei bambini e soprattutto per la pedagogia, che sarà al centro di Ragazzo selvaggio (1970).
La sceneggiatura, scritta assieme a Marcel Moussy, è infatti tanto psicologicamente approfondita e attenta al giovane protagonista e al suo amico, quanto crudamente realistica e severa verso l'universo adulto, fatto di genitori distanti e docenti incapaci e incattiviti. Perfetti risultano i dialoghi, così verosimili e prossimi alla quotidianità, così come la trattazione dei personaggi. La struttura narrativa, pur avendo come oggetto una vicenda relativamente semplice, rende ben evidenti i conflitti interni e riesce a incalzare, nel corso della discesa di Antoine alla prigionia del riformatorio, fino allo straziante finale presso il mare. Proprio quest'ultimo, a livello registico, è fra i tocchi di grazia del film:
un fermo immagine che, oltre a contrapporsi ontologicamente alla cinesi propria del cinema, si ferma sullo sguardo del protagonista pronto ad affacciarsi alla vita adulta.
Ovviamente la regia di Truffaut non si ferma a questo: memorabili sono anche l'espediente del long-take del colloquio fra Doinel e la psicologa, tenuta fuori campo a sottolinearne l'estraneità, e la soggettiva del ragazzino, in viaggio verso il riformatorio, quando vede Parigi allontanarsi. Questi, oltre al frequente ricorso ai primi piani, sottolineano come Truffaut, oltre al realismo documentarista di Vittorio de Sica e Roberto Rossellini, avesse in mente anche la perizia della macchina da presa di Alfred Hitchcock e Howard Hawks: ingredienti necessari a un cinema verista e allo stesso tempo espressivo, dove oggettivo e soggettivo sono categorie riconciliate entro la fenomenologia della cinepresa.
Le interpretazioni, fra cui spicca il ricorrente Jean-Pierre Léaud, sono ottime così come la direzione attoriale. Si segnala, in una parte minore, Jeanne Moreau. Elegante ed efficace, sia nelle sue componenti realistiche che in quelle legate alla memoria e allo sguardo dell'infanzia, la fotografia di Henri Decaë, fra i più importanti rappresentanti della cinematografia francese con titoli quali Ascensore per il patibolo (1958) di Luis Malle e I senza nome (1970) di Jean-Pierre Melville. Da segnalare, infine, le musiche di Jean Constantin, che hanno in se qualcosa di felliniano: senza peraltro azzardare connessioni indebite, sarebbe tuttavia interessante un paragone fra la dimensione del ricordo esplorata da Truffaut e quella invece ricorrente in Federico Fellini (es. Amarcord, 1973), entrambi autori figli del neorealismo e che da quest'ultimo hanno preso direzioni ben distanti. Curiosamente, qui come in molte opere del maestro riminese, il mare con la sua valenza simbolica e riflessiva chiude le vicende narrate.
I 400 colpi, in definitiva, è un classico in quanto film fondamentale per la Storia del cinema, ma anche per il fatto che, come qualsiasi classico secondo la definizione di Italo Calvino, a distanza di anni e innovazioni tecnologiche ha sempre mantenuta intatta la propria potenza, che si rinnova a ogni visione. Nota conclusiva, il film è dedicato al padre spirituale della Nouvelle vague, André Bazin, le cui considerazioni sul cinema come ontologia della realtà, oggi come allora, restano di ispirazione fondamentale.
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