Nel Giappone rinascimentale, un manipolo di contadini assolda sette samurai per difendersi dalle incursioni di un gruppo di briganti.
Nel Giappone rinascimentale, un manipolo di contadini assolda sette samurai per difendersi dalle incursioni di un gruppo di briganti.
I sette samurai è unanimemente riconosciuto come il capolavoro del regista nipponico Akira Kurosawa (Rashomon, 1950; Il trono di sangue, 1957). Celebre anche al di fuori del Giappone, la trama, con relativa morale, sarebbe valsa come spunto per il remake western I magnifici sette (1960) di John Sturges. Il tono picaresco e collettivo della vicenda, peraltro, ha dato origine a una lunga schiera di emuli, dal western della New Hollywood a quello all'italiana di Sergio Leone. In comune, inoltre, il sottotesto esplicitamente politico: i deboli vengono difesi da una casta di guerrieri appartenenti a un passato perduto e ancorati a valori umani pre-capitalistici e pre-industriali.
Nel Giappone ancora memore dei disastri atomici e prossimo a un progresso rapido e contraddittorio, Kurosawa recupera «l'immensa grandezza del mondo contadino» (Pier Paolo Pasolini)
fornendo un affresco di umanità unica e scomparsa, connettendola all'antica e ormai romantica filosofia dei samurai. Significativo, a tal proposito, il ruolo dei fucili come armi da combattimento, simbolo di una modernità contrapposta all'abilità manuale, al sacrificio delle armi da mano dei samurai.
Al di là delle interpretazioni più o meno esplicitamente politiche (il critico italiano Goffredo Fofi parla di vero e proprio «socialismo»), I sette samurai risulta innovativo per ulteriori e molteplici fattori cinematografici. In primis, il soggetto e la sceneggiatura dello stesso regista: buona parte della storia ruota non attorno alla battaglia o alla descrizione dei nemici, ma al reclutamento dei guerrieri e alle numerose dinamiche interne al villaggio che ne conseguono. Non esistendo un vero protagonista, ogni personaggio viene tuttavia descritto con sintesi e in modo incisivo, creando dei caratteri ben definiti. Al di là della lentezza apparentemente sfiancante del film, Kurosawa riesce a gestire in modo ottimale il debordante materiale narrativo: lo spettatore può immedesimarsi così in ciascuno dei numerosi individui presentati dalla storia e nel loro arco di sviluppo.
Il ritmo dilatato del racconto viene intercalato dalle storie minori, ora drammatiche ora comiche, in modo da rendere il film non solo un'opera d'autore, ma anche un vero e proprio prodotto di intrattenimento. La molteplicità dei punti di vista sarà fondamentale, e ancora più spinta all'estremo da Kurosawa, nel successivo Rashomon.
La regia sfrutta al meglio le ottime ricostruzioni scenografiche, realistiche e storicamente accurate, ad opera di So Matsuyama. Ogni inquadratura assume così le caratteristiche formali e spaziali di un dipinto. Efficaci ed emozionanti, non solo per l'epoca, le scene di battaglia cruente e drammatiche. Un plauso va quindi anche alla fotografia di Asakazu Nakai, che nel 1986 venne nominato agli Oscar proprio per un altro film di Kurosawa, Ran. Il montaggio, sempre a cura del regista, riesce a coniugare la staticità dei primi piani e la dinamicità dei campi più ampi.
Le interpretazioni, pure, risultano efficaci. Favoriti dai tratti distintivi dei singoli costumi e dall'accuratezza del pubblico, ogni personaggio riesce a riportare la propria storia e il proprio carattere senza risaltare eccessivamente sugli altri. Rimane tuttavia rilevante e maggiormente impressa l'interpretazione complessa e sfaccettata di Toshiro Mifune. Le musiche di Fumio Ayasaka (I racconti della luna pallida di agosto, 1953; Gli amanti crocefissi, 1954) sono infine essenziali ma ben distribuite, con un leitmotiv principale a scandire i momenti di raccordo.
I sette samurai è fra i capolavori del cinema mondiale, per estetica, significato e portata storia. Film praticamente quasi senza difetti, risulta fondamentale in Oriente e in Occidente, e soprattutto un racconto ancora capace di emozionare dopo quasi settant'anni.
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