Un'ampia visione socioculturale della borghesia anni '50, a partire da un gruppo di cinque giovani “vitelloni” alle prese con le loro vite.
Un'ampia visione socioculturale della borghesia anni '50, a partire da un gruppo di cinque giovani “vitelloni” alle prese con le loro vite.
Vincitore del Leone d'Argento a Venezia nel 1953, I Vitelloni rappresenta un evidente passo avanti rispetto al Lo sceicco bianco (1952), pellicola immediatamente precedente nonché esordio assoluto di Federico Fellini. La maturazione del cineasta è assistita in gran parte da una sceneggiatura innovativa e originale (candidata agli Oscar), il soggetto del trio Fellini, Flaiano e Pinelli (consueti collaboratori) pone difatti l'attenzione sulla mera quotidianità della società borghese anni '50, arricchendo con fantasia vecchi episodi e ricordi adolescenziali (di Fellini in primis).
L'opera avrebbe dovuto essere ambientata nella città di Pescara, da cui deriva l'espressione dialettale “vudellò” (budellone, vitellone), utilizzata spesso per indicare quei giovani di provincia, incapaci di affrontare la realtà, dediti a una vita indolente, in favore di un atteggiamento più comodo e infantile. Fellini personalizza il racconto ambientandolo a Rimini (sua città natale), connotandolo di un chiaro sapore autobiografico, immedesimando persino sé stesso nel personaggio di Moraldo.
La pellicola si presenta come una commedia all'italiana, a cui però non mancano i momenti drammatici e riflessivi; vengono abbandonati quei toni di neorealismo rosa del film precedente a sostegno di un'ironia più amara e graffiante. La regia di Fellini si adatta filo della trama suddividendo gli snodi narrativi in grandi blocchi, raffiguranti ognuno l'evoluzione di un personaggio. Questa scomposizione permette una miglior delineazione dei cinque protagonisti,
nei quali non è difficile intravedere un po' di Fellini: dalla frivolezza di Fausto all'infantilità di Alberto, con l'ambizione di Leopoldo ma soprattutto nell'integrità di Moraldo, che nel finale sceglie di allontanarsi da una scena (provinciale) di vacuità per affacciarsi a una nuova esperienza di vita.
Fellini, alla ricerca di una posizione di imparzialità (come Moraldo) e di anti-critica nei confronti degli atteggiamenti dei suoi personaggi, cerca di rimanere al di fuori del racconto ma mantenendo un continuo contatto (quasi premuroso) grazie alla voce narrante in secondo piano.
La fotografia, buona ma ancora prematura, regala allo spettatore la giusta immedesimazione visiva, giocando preziosamente con le ombre, e dà coerenza visiva alla messa in scena del regista. Le performance attoriali sono di primissimo livello, tra tutti spicca Alberto Sordi (La grande guerra, 1959; I due nemici, 1961) nei panni di Alberto, sfaticato irresponsabile devoto all'ozio (e al biliardo), fautore della scena epocale dove, con pernacchia e gesto dell'ombrello, sfotte i lavoratori, a dimostrazione del suo spirito da gradasso fanfarone (spesso attribuitogli anche fuori dal set).
Ottime le musiche di Nino Rota (La dolce vita, 1960; Il padrino, 1972), già proprie dell'animo felliniano e attente a tratteggiare le sequenze più salienti della pellicola. Le ambientazioni, volte a ricreare la tanto amata Rimini, sono soddisfacenti, la ricostruzione non è particolarmente dettagliata ma offre una buona panoramica della provincia del tempo (le riprese infatti non si svolsero nella città costiera del regista, ma a Roma, Firenze, Viterbo e Ostia).
In conclusione I Vitelloni si prefigura come una sorta di ponte (cinematografico) fra il debutto di Fellini e i lavori successivi, legato ancora a una narrazione semplice con uno stampo registico novello ma già precursore e anticipatore (la sequenza della festa in maschera quasi onirica, per esempio) del metodo felliniano per eccellenza.
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