Tre manigoldi, accomunati dalla ricerca di un tesoro nascosto, interagiscono negli Stati Uniti sconquassati dalla Guerra di secessione.
Tre manigoldi, accomunati dalla ricerca di un tesoro nascosto, interagiscono negli Stati Uniti sconquassati dalla Guerra di secessione.
Terzo capitolo della cosiddetta Trilogia del dollaro di Sergio Leone, che se non fondò ex-novo il genere spaghetti-western di sicuro contribuì più di ogni altro regista ad affermarlo quale filone rilevante, Il buono, il brutto, il cattivo porta alle estreme conseguenze quelli che erano i presupposti e le peculiarità dei precedenti Per un pugno di dollari (1964) e Per qualche dollaro in più (1965). Leone ha sempre ribadito come il proprio cinema andasse concepito in termini mitici: ovvero, come riproposizione della grande narrazione del West, ribaltata tuttavia in un'ottica parodica, picaresca, sporca ma non meno epica. Il mito di Leone, insomma, come antidoto al postmodernismo, usandone tuttavia gli stessi strumenti. Il titolo del terzo capitolo della trilogia è entrato, come spesso accade, nel linguaggio comune: a lui sono debitori tanto il Quentin Tarantino di The hateful height (2015) quanto il Park Chan-wook di Old boy (2003). Leone, a propria volta, è debitore ora dell'epica comico-cavalleresca di Ludovico Ariosto, ora della commedia dell'arte, ora dei mai dimenticati maestri Howard Hawks e John Ford. Arrivato al capitolo conclusivo di una saga iniziata quasi in sordina, con budget basso e qualche accusa pendente di plagio da Akira Kurosawa, Leone anzi arriva a competere, in magnificenza e dispiego dei mezzi, con i kolossal di Hollywood: pronto ad abbandonare quella nota artigianale che rende tanto caratteristici film quali Django (1966) di Sergio Corbucci, Leone fa detonare l'ultima dinamite dell'avventura prima di passare, con la successiva Trilogia del tempo, a officiare una lunga, mesta e dolce messa funebre alla mitologia che lui stesso ha cambiato per sempre.
La sceneggiatura, scritta assieme a Luciano Vincenzoni (La grande guerra, 1959), Sergio Donati (Sbatti il mostro in prima pagina, 1972) e alla coppia d'oro del cinema italiano Age&Scarpelli, è complessa e segue il modello, fra colpi di scena e sovrabbondanza drammatica, dell'opera lirica popolare e del romanzo d'avventura a puntate. La grande Storia della lacerazione di un'intero Stato incrocia le piccole storie, infime e squallide, di tre malandrini che di nobile e cavalleresco hanno ben poco. L'eroismo è un fattore tanto casuale quanto il telos che guida la commedia umana di cui Leone sembra farsi beffa: non esiste ordine nelle vicende umane, né bianco e nero, giusto e ingiusto.
Parafrasando il grande narratore del secolo americano successivo, Francis Scott Fitzgerald, i personaggi di Leone sono pietre di inciampo della Storia, barche alla deriva sospinte dalla corrente.
Eppure è proprio nel recupero della violenza, della carne trafitta, degli abiti impolverati di sabbia del deserto, che l'occhio cinematografico ridona dignità alle sorti di tre miserabili in cerca di tesori aleatori (salvo poi imbattersi, quale memento mori, in uno scheletro umano). Comico e tragico, stasi e dinamismo, interminabili silenzi e battute fulminanti si alternano in una sceneggiatura dal soggetto, ancora una volta ironicamente, classico e quasi banale: la ricerca dell'oro. Il punto di partenza è una bagatelle da cantastorie, il risultato è una moltiplicazione delle possibilità narrative spinta alle sue estreme possibilità.
Rispetto alla regia, è vulgata che Leone, quanto a perfezionismo, sia secondo solo a Stanley Kubrick. La cura del dettaglio, alternando quest'ultimo alle riprese in campo lunghissimo, hanno creato una vera e propria grammatica filmica personale, ripresa e imitata negli anni a venire. Leone davvero andrebbe paragonato a Victor Hugo, Alexandre Dumas, Marcel Proust e tutti gli altri narratori di cui la sua biblioteca personale, notoriamente, era madida: il regista romano possiede e sa maneggiare il senso del grande racconto e lo sa trasporre in visivo. Che la sceneggiatura, talvolta, sia prolissa e ipertrofica, poco conta: ogni inquadratura è un dipinto, ogni movimento di macchina appare cesellato alla perfezione. Tecnicamente, il film è perfetto a livello visivo e tecnico: la fotografia, verista e allo stesso tempo nobile, maestosa, è di Tonino Delli Colli (fra i tanti altri, La voce della luna, 1990): maestro dell'immagine, Delli Colli sembra qui condensare la lezione realista, imparata lavorando per Pier Paolo Pasolini, e quella ironica, caricaturale, appresa con Mario Mattioli, Steno e Mario Monicelli. Il controllo degli spazi e degli elementi scenici, in ogni caso, è totale.
Potrebbe apparire superfluo sottolineare l'importanza della colonna sonora: Ennio Morricone dispiega, in quest'opera, tutte le potenzialità del proprio stile per come si era sviluppato fino a quel momento: la mimesi si coniuga con la lirica, la musica si fa elemento narrativo, inserendosi nelle pieghe della sintassi filmica e dialogando direttamente con la sceneggiatura. Il crescendo continuo accompagna lo svolgersi della narrazione, mente il dialogo fra sonorità artigianali e elettriche marca la stessa storia della della musica per film. Morricone è un ascoltatore attento al panorama a lui contemporaneo e sa rileggerne gli spunti in chiave epica. Le interpretazioni si avvalgono di volti indelebili: Clint Eastwood si ricorderà delle espressioni, empatiche e luciferine, di Eli Wallach quando da regista lo chiamerà a comparire in Mystic river (2003). Eastwood stesso, perseverando nel proprio personaggio iconico, offre ciò che la sceneggiatura richiede. Van Cleef, pur avendo fra le mani il carattere meno complesso e tridimensionale, riesce a conferirgli un controllo della mimica è una presenza scenica impressionanti.
Il buono, il brutto, il cattivo non è il capolavoro di Leone. È però il film che meglio condensa le tematiche e i pregi della sua prima produzione. Oltre a ciò, è un'opera impegnativa ma prossima alla perfezione, complessa ma iconica, popolare e colta. Imprescindibile a livello storico, irrinunciabile per chiunque scelga di amare il cinema (non solo di genere). Leone cercava il mito: egli stesso, così come il suo compagno d'avventura artistica Morricone, lo è diventato con opere che hanno contribuito a cambiare la percezione dello spettatore rispetto al racconto filmico. Il buono, il brutto, è il cattivo resta un classico, capace di sopravvivere al passare del tempo e allo stesso tempo di suggerire modelli e spunti narrativi alle generazioni a venire.
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