I destini di due famiglie si scontrano tragicamente dopo che un ciclista viene investito da un uomo misterioso.
I destini di due famiglie si scontrano tragicamente dopo che un ciclista viene investito da un uomo misterioso.
Liberamente ispirato dal romanzo omonimo di Stephen Amidon, Il capitale umano è l'undicesimo lungometraggio di Paolo Virzì (Ovosodo, 1997; La pazza gioia, 2016), regista livornese che ha riscosso, non sempre meritatamente, assai successo nel panorama cinematografico italiano. Negli ultimi vent'anni lo spettatore medio è stato ripetutamente tediato dalle numerose produzioni spazzatura che il cinema italiano ha sfortunatamente lanciato, e un autore come Paolo Virzì, apparentemente dissonante con il tipo di film citati pocanzi, è stato elogiato non poco per i modi in cui i suoi film facevano critica sociale del e per il paese italico. Tuttavia, come in altre sue opere, le uniche virtù de Il capitale umano le possiamo osservare nelle sole componenti di regia e fotografia. Indubbiamente non perfetto, il totale reparto visivo è l'elemento che soffre in misura minore dei difetti complessivi del film. Il montaggio tuttavia si trova a lottare con una narrazione di per sé già caotica, motivo di confusione per lo spettatore, incapace di distinguere le due linee temporali disordinatamente proposte.
La reale debolezza de Il capitale umano però è la sceneggiatura: nella costruzione di un intreccio farraginoso, dialoghi noiosi, personaggi abbozzati e finale inconcludente. Due famiglie, narrativamente simulate, alle prese con un evento tragico, nel tentativo di accentuare un problema tutto italiano: il degrado culturale, derivato comunemente da uno spasmodico attaccamento al denaro. Per quanto si possa apprezzare lo sforzo, la realizzazione fa acqua da tutte le parti.
L'approfondimento psicologico dei ruoli chiave è completamente assente, e la volontà del regista di sprovincializzare la commedia all'italiana con un'ambientazione atipica come quella brianzola, si rivela un riproporsi catastrofico di luoghi comuni che dimostrano ben poca valenza narrativa.
L'alta borghesia è a malapena accennata; attorno alle famiglie coinvolte non vi è sensibilità (dialoghi freddi, falsi), né viene valorizzato l'autentico clima italiano degradante al quale Virzì avrebbe dovuto puntare. Si evince la solita posizione politica ambigua: a tratti di qua e a tratti di là. Una finta critica altolocata che, in fondo, non dà colpe a nessuno.
Le musiche rappresentano un'ulteriore problematica del film: per lo più assenti quando la narrazione lo richiedeva (per esempio nella primissima scena), altrimenti inserite fuori contesto e/o armonicamente dilettantesche. Gli attori, di cui tre inspiegabilmente premiati al David di Donatello (tornando a quel sintomo italiano di inizio articolo), si rivelano, salvo poche eccezioni, in perenne fuori parte, o addirittura amatoriali (il personaggio di Massimiliano per esempio è interpretato esageratamente male).
Una mediocrità complessiva fa da cappello a questo capitale umano, pressapochista nei modi in cui viene presentato, e concluso senza capo ne coda con dei titoli di coda totalmente insensati. Va quindi intrapresa una riflessione: lo spettatore aveva realmente bisogno di questo film per comprendere quel mero “rimprovero” finale?
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