La vita e le avventure erotiche di Giacomo Casanova, nobile e conquistatore, nell'Europa del Settecento, fra visioni mistiche e amplessi estatici.
La vita e le avventure erotiche di Giacomo Casanova, nobile e conquistatore, nell'Europa del Settecento, fra visioni mistiche e amplessi estatici.
Il Casanova di Federico Fellini, già dal titolo, si propone non come un adattamento pedissequo e storicamente accurato dell'autobiografia Histoire de ma vie di un personaggio reale, ma come un pretesto letterario, volutamente artificioso, per mettere in scena la visione di Fellini stesso a proposito di un certo tipo di sessualità, connessa con la cosiddetta crisi dell'idea di maschio occorsa proprio a partire dagli anni Settanta. Nell'epoca in cui la produzione cinematografica italiana, prendendo indebitamente spunto da Il Decameron (1971) di Pier Paolo Pasolini, dava libero sfogo al libertinaggio con pellicole erotiche caratterizzate da femmine avvenenti e uomini dimezzati e impotenti (i vari Alvaro Vitali, Pippo Franco e, a un livello meno casereccio, Lando Buzzanca), Fellini prende il più celebre ‘maschio predatore' della Storia per farne l'emblema di un essere schiacciato dal peso stesso della propria supposta missione erotica: un uomo per cui al piacere si sostituisce l'automatismo, al gioco la competizione, alla realtà una finzione pomposa e palesemente falsa. Il sesso per Casanova non corrisponde allo stare nel mondo, ma al cercare di affermarvisi: nella realtà egli è un uomo tanto inetto, tanto incapace di sincere interrelazioni con l'altro da sé, da cadere vittima della passione per un automa. Così come il sesso è stato per tutta la sua vita una costruzione fragile e fallace di rapporti di potere, così al crepuscolo della propria esistenza l'allucinazione resta l'unico lenitivo di fronte a una morte imminente e solitaria.
La caratteristica più spiazzante di questo film è innanzitutto la totale assenza di empatia di Fellini per il proprio personaggio: lungi dall'esserne un alter-ego come il Mastroianni de La dolce vita (1960) e Otto e mezzo (1963), Casanova gli provoca, in maniera intuitiva, un senso di pena e distacco. Ne deriva una freddezza complessiva del film, contrapposta al fasto generale delle ambientazioni ma in linea con numerosi altri elementi narrativi ed estetici, particolarmente inediti per Fellini. Tale distacco emotivo può risultare straniante a chi avesse presente un altro tipo di rapporto fra Fellini e i suoi personaggi: chiaramente, tale senso di disagio è voluto e in linea con il significato del film.
La sceneggiatura, di Fellini e di Bernardino Zapponi (con cui scriverà il successivo, controverso La città delle donne, 1976), utilizzando la frammentarietà episodica del romanzo storico picaresco, segue il classico procedimento felliniano dell'accumulo di situazioni connesso al tema della memoria: come in Amarcord (1973), si tratta infatti di ricordi del passato. Laddove però, nel film di ambientazione riminese, il focus sul protagonista cedeva il passo a una galleria adì comprimari memorabili capaci di farlo maturare, qui l'assolutezza in scena di Casanova è tragicamente connessa alla sua solitudine, alla incomunicabilità con gli altri personaggi, e di conseguenza a una parabola non positiva, ma degenere e spaventosa. I dialoghi in dialetto, più che avere un significato mimetico e di verosimiglianza, accentuano la tematica della finzione dei rapporti e della meta-narrazione. La regia di Fellini è magistrale nel comunicare il senso della sceneggiatura: con una freddezza a tratti chirurgica, appunto, tipica di chi vuole prendere le distanze dalla materia narrata.
Non si ha più l'immersione in un mondo, ma l'emersione dei mostri dall'abisso di un animo umano votato alla auto-consunzione (simbolica la prima scena della dea Luna che emerge dal Canal Grande).
Il ritmo narrativo è lento, a tratti estenuante, ma indicato: il montaggio di Ruggero Mastroianni (Il marchese del Grillo, 1981; La tregua, 1996) sincopato, soprattutto nella delirante scena dell'amplesso con la bambola robotica.
Come tutti i film a colori di Fellini a partire da Giulietta degli spiriti (1965), grande cura è riservata a fotografia, costumi e scenografie. Giuseppe Rotunno, già direttore di fotografia per sontuosi film in costume quali Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, ricrea alla perfezione la qualità luministica riconoscibile, anche a partire dai pittori vedutisti d'epoca, della Laguna veneziana. A Danilo Donati va però il plauso maggiore per i costumi, che hanno conseguito il premio Oscar: accurati e barocchi, sia nel senso dell'estremo sfarzo, sia in quello della dichiarata teatralità. Le scenografie, ricostruite interamente a Cinecittà con un impressionante lavoro di design e carpenteria, vedono fra gli altri, oltre allo stesso Grimaldi, anche la collaborazione di Roland Topor, poliedrico artista francese noto anche per essere l'autore del romanzo da cui è tratto L'inquilino del terzo piano (1976) di Roman Polanski.
Delle interpretazioni, è ovviamente notevole quella di Donald Sutherland: mefistofelico e algido, robotico e concitato ad alternanza, il suo Casanova esprime alla perfezione l'idea di protagonista perso nel proprio sadismo e nel continuo tentativo di affermarsi in quanto soggetto detentore di potere, salvo poi cadere in quell'impotenza naturale è fisiologica che è la morte. Anticipata, quest'ultima, dal perturbante amplesso con la bambola meccanica, simbolo di qualcosa che è già morto prima di nascere, eppure si finge vivo. In genere l'immaginario dell'artificio tecnico, dell'orologeria, non è il primo ad associarsi a Fellini: eppure è variamente presente nel film in questione, anche nell'immagine dell'uccello meccanico (citazione cinefila, forse, al pavone di Ottobre, 1928, di Sergej M. Ejzenštejn). Vi si accosta perfettamente la colonna sonora del solito Nino Rota, stavolta più volta all'utilizzo di suoni meccanici, da carillon appunto. Il Casanova di Federico Fellini è una sorta di capolavoro oscuro: respingente e mai disposto a fare breccia nell'empatia dello spettatore, eppure così spietato ed esatto nei suoi significati.
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