Sei giorni di vita del vetturino e del cavallo che nel 1889 resero folle il filosofo Nietzsche.
Sei giorni di vita del vetturino e del cavallo che nel 1889 resero folle il filosofo Nietzsche.
Orso d'argento al Festival di Berlino del 2011, Il cavallo di Torino è, comprensibilmente, un film temuto. All'aura quasi sacrale da opera filosofica ed estetica imprescindibile per l'educazione cinefila si accosta la famigerata notorietà dei silenzi, dei tempi dilatati, dei soli trenta take distribuiti in due ore e mezza. Béla Tarr non è certo nuovo a imprese estreme, date le oltre sette ore del suo precedente Satantango (1994): qui, firmando la regia con Ágnes Hranitzky e la sceneggiatura con il collaboratore abituale László Krasznahorkai, compie quello che egli stesso ha definito summa della propria poetica.
L'ambientazione è quella di un secolo che sembra non decidersi a finire, quello chiuso proprio dalla morte di Nietzsche nel 1900.
Lo schiacciante peso dell'esistenza e l'attesa di una rimandata apocalisse (intesa come fine ma anche come disvelamento) sono i fili conduttori di un apologo mistico, solenne e tremendamente realista: l'eco del pensatore tedesco si alterna a simbologie bibliche e cristologiche ora esplicite, ora più nascoste. L'immagine del vecchio a letto, inquadrato con lo stesso angolo visuale del Cristo morto di Mantegna non è certo casuale, così come la figlia alla finestra illuminata rimanda all'iconologia delle varie Annunciazioni. Tuttavia, in un film dedicato al filosofo della morte di Dio, non vi è salvezza ultraterrena, non vi è miracolo e nemmeno epifania: vi è semmai il sentore di un Evento inevitabile, che però resta lontano, coperto dall'incessante marcia funebre del vento. La Storia, con le sue gaie e terribili discontinuità, è al di fuori della fattoria del vetturino: così come la sua vicenda è incidentale e dimenticata rispetto a quella del più grande pensatore di sempre, così la sua esistenza rinuncia ai vari Zarathustra che ne annunciano la decadenza.
Il soggetto, da questo punto di vista, è ottimo: seguire i sei giorni (altro riferimento biblico) di tre esseri infimi e tangenti. Indagarne i silenzi, i gesti nervosi; indugiare sulle mani rovinate che spezzano il cibo, soffermarsi sui loro colpi di tosse. La sceneggiatura ha il pregio, così intransigente da risultare ostico, di prevedere poche situazioni e pochi dialoghi: ciò che si filma è, effettivamente, la morte. Meglio, non la morte come accadimento ma la qualità inevitabile della morte stessa. A spezzare il silenzio sopraggiunge il discorso dell'amico in visita, tanto verboso quanto altisonante: ricavato da citazioni quasi letterali di Nietzsche, il monologo ha una potenza retorica senza dubbio impressionante, fin troppo esplicita se confrontata alla scena successiva degli zingari. I quali, da portatori del dionisiaco e della transvalutazione del peso morale dell'esistenza, sono nuovamente una metafora efficace dal sapore dichiaratamente nicciano.
Il cavallo di Torino è un film sulla sottrazione: Nietzsche lo attraversa senza mai apparire, il mondo finisce senza mostrarsi, la vita continua ma solo al di là, le parole sono perlopiù affidate a una voce narrante che non si vede. Per sottrazione lavora anche la regia, magistrale nel suo limitarsi le possibilità per lavorare sula solennità delle immagini. Le inquadrature sono concepite come incisioni medievali in pietra, immobili e innervate di significato; la macchina da presa si pone, nuovamente, come occhio sermone esterno alla scena, intento a cogliere la temporalità delle cose più che le cose stesse. L'utilizzo del piano sequenza, pertanto è assolutamente dettato da esigenze espressive e magistralmente gestito. Il bianco e nero e il formato 1.66:1 sono altrettanto funzionali a trasmettere l'essenziale ontologico del film, fatto di miseria e fermezza: un grande lavoro della fotografia di Fede Kelemen. Da segnalare, in buon contrasto con il resto del film, il prologo nel cavallo nella tempesta, drammatico e detonante nella sua potenza visiva.
Nella stasi generale del film, è ottimo a livello di montaggio sonoro l'espediente del terribile suono continuo del vento, spezzato solo da un tema musicale perpetuo e dal sentore antico, composto dai liuti di Mihaly Vig. Per concludere, si segnala la non facile prova di immobilismo e mimica ridotta all'osso degli interpreti.
Il cavallo di Torino è un film, per citare un'ultima volta Nietzsche, volutamente inattuale. Non ha tempo fuori da sé così come al proprio interno. Estenuante, al limite della fruibilità, è però un'alta prova di utilizzo ragionato e significativo del mezzo cinematografico che, per citare André Bazin (maestro di François Truffaut, cui dedicò I 400 colpi), è l'unica arte in grade di fotografare la «mummia del cambiamento», la più impietosamente ancorata alla realtà e la più capace di elevarla.
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