Per calmare una nazione in guerra, re Giorgio VI deve vincere la balbuzie. Ha così inizio un'amicizia improbabile con il suo logoterapeuta.
Per calmare una nazione in guerra, re Giorgio VI deve vincere la balbuzie. Ha così inizio un'amicizia improbabile con il suo logoterapeuta.
Il terzo lungometraggio diretto da Tom Hooper (regista, tra gli altri, di The Danish Girl, 2015 e Cats, 2019) si è rivelato un successo immediato di critica e pubblico. Il film, infatti, oltre ad aver incassato al botteghino quasi mezzo miliardo di dollari in tutto il mondo, ha ottenuto ben dodici candidature agli Oscar del 2011, aggiudicandosi quattro prestigiosissime statuette (miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista a Colin Firth e miglior sceneggiatura originale). Questa premessa potrebbe indurre a reputare la pellicola in esame come una delle migliori degli ultimi anni, tuttavia la realtà è ben diversa.
Il Discorso del re presenta una sceneggiatura molto semplice e poco originale: sin dalle primissime scene lo spettatore riesce ad intuire senza alcuna difficoltà lo sviluppo di ciascun personaggio e i dialoghi non risultano sempre brillanti.
Ciò nonostante, il film offre due interessanti spunti narrativi: il primo consiste nella scelta di mostrare l'aspetto più debole e intimo dell'uomo forte per antonomasia, ovvero il sovrano. Giorgio VI non solo è stato re del Regno Unito durante la Seconda guerra mondiale, ma ha anche accompagnato il suo Paese nella delicatissima fase di transizione da impero coloniale a Stato-nazione. Un uomo forte, integerrimo, tra i principali promotori della ripresa economica e sociale post-bellica del Regno Unito, che ha riscattato la famiglia reale dagli scandali causati da Edoardo VIII, suo fratello e predecessore. Un uomo, dunque, che colpisce inevitabilmente lo spettatore se mostrato così fragile e vulnerabile davanti a un problema imbarazzante – e per il suo ruolo rilevante – come quello della balbuzie. Il secondo spunto narrativo che vale la pena di sottolineare è proprio quello dell'importanza della parola, soprattutto in politica. Un'importanza del tutto nuova, impensabile fino a pochi anni prima. L'affermarsi della democrazia, accompagnato alle nuove tecnologie, obbliga infatti anche il sovrano a dover entrare nelle case dei sudditi per accaparrarsi il consenso delle masse. Consenso che, proprio grazie al suo carisma e alla sua innegabile abilità dialettica, stava portando Adolf Hitler a scatenare un nuovo conflitto mondiale. Come avrebbe potuto il Regno Unito opporsi al miglior comunicatore politico del tempo, trascinatore di masse e mobilitatore di eserciti, con un sovrano balbuziente? Di qui l'importanza del personaggio di Lionel Logue, logoterapeuta poco accreditato, che ha fatto esperienza sul campo di battaglia, in grado di restituire la parola al re principalmente ascoltandolo, capendolo e divenendo suo amico, prima ancora che suo terapista. Fa riflettere pertanto, come un film così incentrato sulla parola, attribuisca proprio all'ascolto la sua origine. In fondo, non avrebbe senso parlare senza nessuno disposto ad ascoltare. Frase questa, di particolare attualità.
Sul piano strettamente tecnico il film presenta una regia di tutto rispetto; particolarmente rilevanti risultano in tal senso le frequenti carrellate a seguire i movimenti del sovrano, con camera posta in basso e rivolta verso l'alto al fine di incrementare la sua maestosità. Significativi anche i primissimi piani dedicati alla bocca dei protagonisti, impegnati nei vari esercizi vocali, anche questi coerenti con la semantica del film, dedicata all'importanza della parola. Molto meno convincente risulta invece l'estetica del film. Scenografia, trucco e costumi, componenti fondamentali in un film di questo genere, risultano nel caso di specie poco dettagliate e lasciate ai margini del prodotto. Vero valore aggiunto dell'opera sono invece le interpretazioni del cast. Nonostante l'ottima la prova di Colin Firth e Helena Bonham Carter, credibilissima coppia reale, appare ancor più preziosa la performance di Geoffrey Rush, perfetto nel vestire i panni del controverso Lionel Logue, di cui mostra ogni sua possibile sfaccettatura. In tutte le scene in cui Rush non è coinvolto, lo spettatore non può non avvertire la mancanza della sua presenza, così catalizzante nei momenti che lo vedono protagonista.
Per tutti questi motivi, Il Discorso del re è un film nel complesso discreto, tecnicamente ben realizzato, seppur esteticamente limitato, ricco di innegabili pregi, soprattutto narrativi ma anche di una serie di difetti che l'Academy del 2011 sembra aver inspiegabilmente ignorato.
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