Nella Los Angeles dei primi anni '90, un improbabile e nullafacente alcolizzato si trova coinvolto in un affare di inganni, furti e rapimenti.
Nella Los Angeles dei primi anni '90, un improbabile e nullafacente alcolizzato si trova coinvolto in un affare di inganni, furti e rapimenti.
Joel ed Ethan Coen, entrambi sceneggiatori e registi (per quanto la regia venga solitamente firmata solo dal primo), si configurano, a cavallo del nuovo millennio, come nuove menti critiche della società americana. Il loro senso dell'umorismo, ora yiddish cupo, ora demenziale, mai scontato, li ha portati ad esprimersi con successo sia in pellicole drammatiche (Non è un paese per vecchi, 2007), sia in commedie leggere (Burn after reading, 2008). La loro cultura letteraria e cinematografica invidiabile, capace di spaziare dal pop al sofisticato, li ha fatti giocare con i generi tipici del mercato di intrattenimento statunitense (La ballata di Buster Scruggs, 2018), sia con la meta-cinematografia (Ave Cesare!, 2016). Nichilisti e machiavellici, i due fratelli hanno, nel corso della loro carriera, messo alla berlina le nevrosi del maschio bianco americano, le sue debolezze, la sua perdita di potere simbolico. Tipicamente postmoderni e barocchi nello stile registico, si contraddistinguono per le sceneggiature compie di battute fulminanti, personaggi fuori dagli schemi e violazioni delle norme narrative canoniche.
Il grande Lebowski, in questo senso, assolve al proprio compito di film manifesto autoriale: anzi, sembra essere, a distanza di decenni, un'opera nata fin da subito per diventare cult,
data la sovrabbondanza di elementi entrati prepotentemente nella cultura popolare, cinematografica e non. Basti pensare che viene citato anche nell'ultimo capitolo recente di una saga ideologicamente e industrialmente opposta al cinema dei Coen, Avengers: Endgame (2019). Non manca però la sua influenza sui modi di dire e gli archetipi (il comico italiano Maurizio Crozza, a titolo d'esempio, ha fatto proprio il personaggio di Walter), sulle scelte di consumo (chi mai lo beveva il White Russian, prima che lo facesse Drugo?) e sullo stesso approccio che il genere commedia ha adottato nell'affrontare, fra le righe, le contraddizioni della società americana (da I Griffin alla trilogia de Una notte da leoni): un'America fatta di emeriti disadattati, figli dell'edonismo e delle paranoie da guerra in Vietnam, dove la sperequazione economica porta alla predazione, le ideologie sono macchiette di costume e l'unica vera certezza, sacra e circondata di narrazione mitica, è il bowling.
Detto questo, Il grande Lebowski non è certamente il migliore film dei Coen (il che non toglie nulla al suo statuto di cult, come si è visto più che meritato). La sceneggiatura si rifà, scardinandolo, al genere noir e in particolare al romanzo Il grande sonno (1939) di Raymond Chandler: femme fatali, boss della malavita, ricchi magnati ingannati e, invece del detective duro e schietto, un umano qualunque (anzi, subumano), strafatto e mai lucido, le cui decisioni sono del tutto passive al fluire di eventi insensati. Operazione, questa, che avrebbe tentato con più audacia Paul Thomas Anderson in Vizio di forma (2014). L'intento di partenza è lavorare per accumulo di scene e personaggi comici, a scapito del filo logico: se da un lato questa procedura è funzionale a regalare allo spettatore, e ai posteri, momenti di surrealismo memorabili, dall'altro sacrifica un intreccio che altrimenti avrebbe forse dato più frutti.
La definizione dei personaggi, punto chiave dell'intera opera, presenta la stessa ambiguità di fondo: se da un lato resta impossibile dimenticarsi di Drugo, Jesus (John Turturro) e Walter – quest'ultimo il più riuscito in assoluto – dall'altro si ha sovente l'impressione che la psicologia di questi resti a livello di macchietta, senza essere sondata a dovere. Un vero peccato, perché individui come i protagonisti avrebbero, se dotati di maggiore spessore drammatico, reso al meglio la contraddizione di fondo in cui rispecchiare l'America: la scena dello spargimento delle ceneri, non a caso quella più funerea e cinica, è forse il momento esemplificativo di ciò che il film avrebbe potuto esprimere in più. Il rischio che ne consegue è che, come è talvolta successo, tali macchiette diventino veri e propri miti senza che se ne colga l'amarezza, esistenziale e sociale, di fondo. Mancanze come queste sono state ampiamente superate con un film del 2017, il capolavoro Tre manifesti a Ebbing (2017) di Martin McDonagh: nel quale si riconosce, in ogni caso, il forte debito verso i Coen che, se non sempre hanno raggiunto la perfetta commedia drammatica spietata, ne hanno in ogni caso indicato la strada.
Come si è detto, la regia è barocca ed eccessiva, gustosa anche se a tratti ridondante. Sulla stessa linea la fotografia a cura di Roger Deakins, premio Oscar per Blade Runner 2049 (2017). Appropriate e impegnate all'operazione cult del film le memorabili musiche di Carter Burwell, collaboratore seriale dei Coen ma noto anche per Velvet Goldmine (1998) e Essere John Malkovich (1999). Quanto alle interpretazioni, personaggi iconici non possono che rendere iconiche le proprie incarnazioni: istrionici Bridges e Goodman, in particolare. Vi concorrono, alla definizione dei caratteri, anche i costumi fantasiosi e parodistici e i make-up ben definiti e significativi.
Il grande Lebowski non è, come si potrebbe pensare, un prodotto invecchiato male. Ha anzi retto a piene forze il passare del tempo. I suoi limiti di allora sono gli stessi visibili adesso, così come i pregi, e può meritarsi il posto di capostipite di un fecondo filone che, nei paesi anglosassoni e di recente forse anche in Italia (Smetto quando voglio, 2014, gli è indirettamente erede), ha dato e darà sempre più frutti. Che si spera siano in maggior numero delle pessime imitazioni.
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