Nel 1968, un gruppo di attivisti contro la guerra del Vietnam viene accusato di aver cospirato per causare violenti scontri tra manifestanti e Guardia Nazionale in occasione della Convention di Chicago del Partito Democratico.
Nel 1968, un gruppo di attivisti contro la guerra del Vietnam viene accusato di aver cospirato per causare violenti scontri tra manifestanti e Guardia Nazionale in occasione della Convention di Chicago del Partito Democratico.
Legal thriller scritto e diretto da Aaron Sorkin, che porta finalmente a compimento un progetto iniziato nel lontano 2006, quando, su espressa richiesta di Steven Spielberg, iniziò la stesura di una sceneggiatura per un film dedicato alla storia processuale dei Chicago Seven, un gruppo di attivisti contro la guerra del Vietnam accusato nel 1968 di aver cospirato per causare violenti scontri tra manifestanti e Guardia Nazionale in occasione della convention di Chicago del Partito Democratico.
Con la pellicola in esame, Sorkin conferma la sua abilità nella scrittura, già nota soprattutto grazie a The Social Network (2010): proprio come avviene nel lungometraggio di Fincher, anche qui i dialoghi risultano sempre incalzanti, mai banali e intrisi di un'esplicita ironia, che oltre a conferire ritmo e vivacità alle vicende, intrattenendo lo spettatore per quasi due ore di udienza, rivela con efficacia la farsa del processo a cui stanno per essere sottoposti gli imputati. Anche prescindendo dalla veridicità storica, che comunque non viene tradita, non risultano dunque fuori luogo le irriverenti battute mosse al giudice da parte dei Chicago Seven, i quali conoscono sin dal principio il non lieto epilogo del processo che li vede loro malgrado coinvolti. L'idea di ricostruire gli avvenimenti ricorrendo esclusivamente ai flashback dei vari testimoni si rivela vincente, poiché idonea ad offrire un confronto tra la verità storica e quella processuale, coincidenti solo fino all'escussione di Ramsey Clark, vero punto di rottura della narrazione. A partire da questo momento, infatti, lo spettatore sarà a conoscenza di fatti che resteranno del tutto estranei alla giuria, la quale finirà inevitabilmente con il condannare degli innocenti (riabilitati solo nel giudizio d'Appello). A non convincere è tuttavia il finale, eccessivamente retorico e caratterizzato da toni oltremodo trionfalistici, non in linea con l'asciutto stile narrativo adottato nel corso del film.
Nonostante l'evidente miglioramento rispetto al suo precedente lungometraggio (Molly's Game, 2017), la regia di Sorkin si dimostra piuttosto spenta e impersonale.
In alcuni momenti si ha quasi l'impressione che la passione infusa nella scrittura della sceneggiatura resti in qualche modo imbrigliata in limiti registici ancora troppo evidenti.
Non entusiasmano nemmeno la fotografia, talvolta troppo patinata, né i costumi, ingessati e poco verosimili, né la scenografia, per forza di cose limitata. Discreto risulta invece il montaggio, abile nello spezzare velocemente i numerosi dialoghi, sebbene all'inizio un po' farraginoso. Ad elevare il complessivo livello della pellicola è inoltre l'interpretazione del cast, in perfetta armonia con la semantica di fondo. Sacha Baron Cohen e Eddie Redmayne regalano una performance tanto credibile quanto magnetica, vestendo i panni degli imputati psicologicamente più approfonditi. Buona anche la prova degli altri attori, su cui spiccano i nomi di Joseph Gordon-Levitt e Michael Keaton, questa volta entrambi in un ruolo di secondo piano.
Per tutti questi motivi, Il Processo ai Chicago 7 si dimostra un discreto legal thriller, tecnicamente limitato, ma perfettamente in grado di intrattenere e di raccontare una pagina di storia americana avvincente e poco nota al grande pubblico.
Caricamento modulo