Italia, 1952: le cattoliche campagne del Veneto vengono sconvolte da un grave fatto di sangue: Carlo (Filippo Franchini), un bambino del ceto popolare, su istigazione del sagrestano (Gianni Cavina) e di una suora, uccide Emilio (Lorenzo Salvatori), un ragazzo suo coetaneo di famiglia altolocata, convinto che si tratti del diavolo.
Un giovane ma alquanto inetto funzionario del Ministero di grazia e giustizia, Furio Momentè (Gabriel lo Giudice), viene inviato sul posto allo scopo di salvaguardare l'immagine della Democrazia Cristiana nella regione. La madre della vittima (Chiara Caselli), un tempo importantissima sostenitrice del partito, ora sembra determinata a prenderne le distanze, affranta dai pregiudizi riguardanti la natura satanica del proprio figlio.
Furio, durante il viaggio in treno, ha modo di leggere quanto emerso dagli interrogatori: Carlo avrebbe ucciso a fiondate Emilio, ragazzo emarginato per il proprio aspetto animalesco e perché ritenuto colpevole di aver ucciso a morsi la sorella anni prima, credendolo responsabile della morte misteriosa del suo migliore amico.
In Emilio si anniderebbe il demonio, a seguito di un amplesso avvenuto fra la madre e un maiale, e tutto dei suoi comportamenti sembra confermarlo.
Il giovane funzionario dovrebbe agire in incognito, ma la provincia veneta è un luogo dove tutti sanno tutto e niente di ciascuno: scoperto, viene liquidato dal Ministero e subisce una delusione amorosa da parte dell'infermiera del suo detestato padre, costretto a letto.
Decide tuttavia, per orgoglio e per senso di verità, di continuare da solo a investigare: operazione non facile, data l'omertà superstiziosa attorno alle vicende di Carlo ed Emilio, alla strenua ostinazione della madre del defunto e a numerose irregolarità nelle procedure di indagine e nel referto medico. Il quale, per giunta, sarebbe stato viziato proprio per nascondere la dentatura bestiale di Emilio, prova della sua ascendenza non umana.
Finalmente Furio, dopo vari tentativi e misteriosi presagi, si mette in contatto con il vecchio sagrestano, che aveva fatto da educatore ai bambini. Questi gli rivela che il corpo della sorella di Emilio è nascosto nella cripta della chiesa dal giorno della sua morte: Furio, convinto che ciò possa scegliere un nodo fondamentale della trama di menzogne e segreti, si fa aprire i sotterranei e trova la bambina mummificata, senza segni di aggressione.
Si rende così conto che non è stato Emilio a sbranarlo, e che il ragazzo, oltre che dal colpo di fionda del compagno, è stato ucciso dal pregiudizio popolare. Prima ancora di risalire, però, si vede il coperchio di marmo delle cripte richiudersi per mano del sagrestano, cui fa capolino da dietro il sorriso crudele e, stavolta davvero, demoniaco di Carlo.
In quella che si potrebbe definire una vera “estate dell'horror”, abbiamo già assistito all'esordio di un giovane Roberto de Feo con The nest – Il nido. Così, in sala avviene anche il ritorno di uno degli ultimi mostri sacri del cinema italiano, il poliedrico e non estraneo al genere Pupi Avati.
Ciò che più colpisce dei film di Avati sono le atmosfere uniche che il regista bolognese sa costruire: ogni storia si configura come un microcosmo di terrore determinato da uno specifico luogo (pensiamo a “La casa delle finestre che ridono” del 1976), e tempo (“L'Arcano Incantatore” o “I Cavalieri che fecero l'impresa” 2001).
A farla da protagonista ancora una volta è il mondo contadino con i suoi miti e le sue superstizione, in cui la presenza del male è accettata come qualcosa di naturale e in qualche modo funzionale all'ecosistema, tant'è che lo stesso Diavolo diviene degno di rispetto e perciò “ Signor Diavolo”.
Nell'horror classico (pensiamo ad esempio a “L'esorcista” 1973), il male è visto come un elemento totalmente estraneo al mondo, qualcosa di inconcepibile e metafisico, le cui rappresentazioni sono caratterizzate dal terrificante e dal disumano.
Nei film di Avati il male si configura come “l'altra faccia del quotidiano”, qualcosa di concreto, terrificante ma che trova un proprio spazio nel mondo, qualcosa con cui l'uomo deve confrontarsi nel corso della propria esistenza finendo spesso per venirne contaminato divenendo“deforme” nel corpo e nella mente. Ci si trova di fronte a una concezione popolare della teologia cristiana, contaminata di leggende, moralità austera ed elementi pagani/animisti (il demonio è associato a un animale, ma anche al peccato sessuale di adulterio della madre).
I luoghi di cui ci parla Avati sono sempre ben definiti, caratterizzati da un proprio dialetto locale e da una propria cultura. Ne “Il signor diavolo” lo spettatore si trova ad esplorare con gli occhi dei protagonisti il paesello di Lio Piccolo disperso fra le paludi venete e una Venezia decadente ancora segnata della guerra. Una fotografia dai toni cupi, dove si alternano interni fatiscenti ad esterni suggestivi, nonostante qualche imperfezione qua e là, riesce a mettere in risalto l'atmosfera complessiva del film.
Tuttavia un buon film non può reggersi unicamente sull'atmosfera che sa ricreare, ed è qui che cominciano i gravi problemi de “Il signor diavolo”.
La sceneggiatura presenta fin da subito diverse criticità: la trama, tratta dall'omonimo romanzo di Avati, è molto complessa ed articolata (il che potrebbe essere un bene e contribuisce a rendere più veritiera la vicenda) il problema è che essa ruota attorno ad un elevato numero di personaggi, molti dei quali non particolarmente rilevanti: a titolo d'esempio, l‘infermiera non ha un vero ruolo, se non cercare di rendere più profondo, facendolo innamorare, un protagonista peraltro irrimediabilmente inconsistente. Tali personaggi finiscono per rendere ancora più intricata una vicenda già non semplice da seguire in tutte le sue diverse sfumature e dinamiche interne, per poi sfociare in un finale che sembra giungere troppo presto e che lascia un senso di smarrimento nello spettatore.
La regia è altalenante: Avati sembra soffrire il “peso della modernità”, le scene con maggiore pathos, quelle in cui il regista si sforza di essere più al passo coi tempi e di sperimentare uno stile nuovo con l'utilizzo di alcuni semplici effetti speciali e dello slow motion, sono quelle meno riuscite (la scena dell'omicidio con la fionda,la scena dell'apertura della cripta e la scena dell'autopsia per citarne alcune), diversamente sono molto efficaci i momenti di vita quotidiana poiché resi con maggiore semplicità più in linea con lo stile del regista (si pensi all'eleganza e alla sobrietà della scena del catechismo, o all'interrogatorio di Carlo). Così come la regia anche il cast si divide nettamente in due: i ruoli più azzeccati sono quelli degli interpreti più “anziani”, come Gianni Cavina (Gino il sagrestano) e Lino Capolicchio (il prete di Lio Piccolo), i quali, probabilmente in virtù delle passate collaborazioni con il regista riescono meglio a comprendere il clima generale del film restituendo un'interpretazione sobria e naturale in perfetta armonia con l'atmosfera gotica e inquietante.
Assolutamente degna di nota, sebbene relegata in un ruolo minore, Chiara Caselli, la madre della vittima, che riesce a creare un personaggio di grande spessore e fortemente caratteristico: la Signora, come viene chiamata, si staglia come unica figura femminile di spessore, e in un mondo patriarcale dove i personaggi maschili (Momentè, Carlo e la stessa vittima) sono oppressi di figure paterne autoritarie o assenti. Meno efficaci i due giovini: il protagonista Gabriel lo Giudice nei panni di Furio Momentè non riesce a restituire lo spessore di un personaggio complesso, anche se descritto in modo parziale dalla sceneggiatura, rimanendo impantanato in un'unica espressione basita che si trascina fino alla fine del film. Lo stesso si può dire del giovanissimo Carlo, ruolo sicuramente non semplice da sostenere per un bambino, ancora meno convincente è la sua controparte, Emilio, il ragazzo assassinato, interpretato da Lorenzo Salvatori il quale purtroppo, trovandosi a dover vestire i panni di un coetaneo di Carlo sortisce lo stesso effetto di Alvaro Vitali in Pierino.
Il montaggio risulta troppo affrettato e talvolta confuso (si vedano le scene del prologo romano), caratterizzato da troppi tagli bruschi e da un ritmo fastidiosamente frenetico che non rende giustizia alla complessità della trama. La colonna sonora è totalmente insapore.
Concludendo possiamo affermare che Avati ne “Il signor Diavolo” non riesce a conciliare il proprio modo di fare cinema con alcuni aspetti della modernità, si avverte poi il peso del confronto con un nuova e diversa generazione attoriale, sicuramente dotata di un “carisma” diverso rispetto ai suoi predecessori: il risultato è un film eterogeneo dove “il vecchio” e il “nuovo” cozzano in maniera disarmonica e quasi fastidiosa, un film sicuramente dotato di atmosfere uniche e irripetibili ma comunque con gravi mancanze dal punto di vista tecnico.
Volendo concludere con due note non negative, tuttavia, possiamo sottolineare due aspetti. Il primo è la chiave di lettura del film per l'attualità, ovvero il rapporto fra verità e falsità, ragione e irragionevole paura, nel quotidiano e nella politica. Che è ciò che distingue un horror di scarso valore americano da un horror di scarso valore italiano.
Il secondo è l'inserirsi del film in un filone di horror a tema familiare: oltre ad Ari Aster e ai suoi Hereditary e Midsommar, e allo stesso De Feo, è interessante notare come fra i film presentati all'ultima edizione del Festival di Venezia vi fosse il tedesco Pelican blood di Katring Gebbe. Il quale, fra figli problematici, madri disperate e osteggiate e possessioni demoniache, offre una versione nordica e contemporanea di quanto narrato da Avati.
A cura di Michele Piatti.
Pubblicato il 2 settembre 2019.
Pro:
- Atmosfere uniche in pieno stile gotico padano.
- Una bella idea di fondo (non troppo originale ma suggestiva).
- Fotografia che rende al meglio l'atmosfera.
Contro:
- Recitazione di molti attori poco convincente.
- Trama difficile da seguire.
- Tante imperfezioni tecniche a più livelli.
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