Lungo le strade quasi deserte di un futuro distopico e imprecisato, l'agente speciale Max si trova a fronteggiare una banda di criminali vagabondi in cerca di vendetta.
Lungo le strade quasi deserte di un futuro distopico e imprecisato, l'agente speciale Max si trova a fronteggiare una banda di criminali vagabondi in cerca di vendetta.
Primo film della fortunata, e rivoluzionaria, saga di Mad Max (1979 – 2015), interamente ideata da George Miller, Interceptor, pur rimanendo ancorato ad alcuni stilemi del periodo, che oggi ci farebbero sorridere, risulta innovativo sotto svariati punti di vista e pertanto merita a pieno titolo l'appellativo di cult. Fra i più evidenti è l'operazione di recupero del genere western, dal deserto alla battaglia senza controllo fra fuorilegge e giustizia, che si rivelano poi due facce della stessa medaglia, trasponendola in un mondo sterile in cui invece di mandrie e bestie da cavalcatura vi sono motori e macchine da corsa. I temi della vendetta indomita e della situazione di apolide, poi, avvicinano il protagonista Max a personaggi classici dell'epopea western (o meglio, di quei film che dell'epopea hanno smontato man mano il mito americanista) quali Django (1966) di Sergio Corbucci: il corpo martoriato dell'uno, ancora in grado di sparare in un cimitero per umani, è echeggiato da quello ferito dell'altro, sul ciglio di quel cimitero di motori che è la strada. Se la saga di Mad Max è indicata come fondativa del filone cyberpunk, ove tecnologia e sporca violenza urbana di incontrano, in Interceptor la componente punk è la più presente.
Dal punto di vista registico, malgrado ovvio limitazioni legate al periodo, Miller riesce a fondare uno stile del tutto personale e in rottura coi canoni, fatto di utilizzo iper-espressivo della macchina da presa e frenesia. Le scene di inseguimento risultano tuttora da manuale, sfruttando tutte le potenzialità delle riprese in soggettiva e della cosiddetta «corsa fantasma» (particolare tipo di inquadratura in cui l'occhio della cinepresa non corrisponde a quello di un personaggio o dello spettatore, ma di un veicolo in movimento), tecnica in voga sin dal cinema delle origini e utilizzata da Buster Keaton in The general – Come vinsi la guerra (1926). Quest'ultimo è fra i maestri dichiarati di Miller, che del suo capolavoro riprende il nomadismo incessante dei soggetti meccanici in scena e l'attenzione ai dinamismi come veicolo privilegiato di espressione del significato. Da notare, inoltre, come Miller giochi coi generi anche attingendo al cinema horror: la sequenza dell'inseguimento del bosco ne utilizza infatti i modelli tensionali alla perfezione.
La sceneggiatura di James McCausland e dello stesso Miller sembra effettivamente soffrire del riferimento al cinema muto e soprattutto dell'iniziale intenzione, poi bloccata dalla produzione, di girare un film interamente senza dialoghi.
I quali, decisamente, risultano così deboli se confrontati alle immagini, vero motore del film, da potersi immaginare senza difficoltà una visione silenziata del film. La linearità della vicenda non rappresenta invece un difetto, ma conferisce a Interceptor quelle doti di essenzialità e sintesi proprie dei classici. Il montaggio di Cliff Hayes e Tony Paterson (Terra selvaggia, 1985), rapido e affastellato, dà il suo meglio sempre nelle scene d'azione, perdendo un po' del proprio scopo in quelle più statiche: bisogna forse concepirne lo stile come più dovuto a Miller stesso, qui in fase di elaborazione della propria pertica a venire, che dei montatori accreditati effettivi.
Quanto alle interpretazioni, si sottolinea come la dinamica e le sequenze fisiche degli attori siano svolti alla perfezione. Anche la mimica, laddove si nota l'intervento di make-up di Vivien Mephan (La sottile linea rossa, 1998), risulta ottima e gustosamente grottesca. Meno riuscite le prove attoriali dei protagonisti: in particolare, il giovane e acerbo Gibson appare troppo ancorato allo stereotipo dell'eroe classico e maschile. Meglio, invece, i caratteristi secondari. Musiche di Brian May (Gli anni spezzati) dimenticabili e buona fotografia di David Eggby, capace di cogliere le atmosfere desolate delle strade a venire ma non lontana da una certa eleganza.
Con Interceptor inizia una saga sorprendentemente estesa nel tempo, pur con solo quattro capitoli, e nella profondità della narrativa distopica, cyberpunk e post-apocalittica, su cui ha avuto da subito effetti immediati. Un primo capitolo che, nonostante gli anni trascorsi, mantiene intatta la potenza narrativa delle immagini e della mano, allora esordiente, che l'ha diretto.
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