Un bambino, nella Germania nazista, ha Hitler come amico immaginario. Fedele al partito, si trova a fare i conti con se stesso scoprendo che la madre tiene nascosta in casa una ragazza ebrea.
Un bambino, nella Germania nazista, ha Hitler come amico immaginario. Fedele al partito, si trova a fare i conti con se stesso scoprendo che la madre tiene nascosta in casa una ragazza ebrea.
Definito da varie testate come il film outsider degli Oscar 2020, Jojo Rabbit riesce innanzitutto in un'impresa difficile: rendere farsa il nazismo e le persecuzioni di regime. In secondo luogo, risulta un film di ottima qualità registica e di scrittura, tanto da trascendere il genere comico-parodistico, in cui solo apparentemente si inserisce. Merito innanzitutto del soggetto, tratto dal libro Come semi d'autunno (2004) di Christine Leunens e reinterpretato, oltre che sviluppato, dal regista e sceneggiatore Taika Waititi (Boy, 2010; Thor: Ragnarok, 2017). L'idea di partenza già di per sé presenta un conflitto narrativamente forte: quello fra ideologia e umanità, fede politica e sentimento. Il fatto che il protagonista sia un bambino permette, in aggiunta, di trasfigurare la realtà storica per calare lo spettatore in un Novecento tedesco tanto violento e truce quanto colorato e demenziale.
Infine, l'espediente di rappresentare Hitler come un amico immaginario letteralmente imbecille, oltre che possedere un elevato potenziale comico, presta al film stesso due chiavi interpretative. La prima riguarda una riflessione su propaganda e fanatismo: se Hitler è la falsa coscienza interna al protagonista, le menzogne e le leggende sugli ebrei, allora le millantate virtù del vero Führer e l'ideologia nazionalsocialista sono la falsa coscienza di una Nazione intera, assopita dalla paura e dall'estremismo. La seconda interpretazione, invece, consente di leggere il film non come parodia storica, ma in quanto romanzo di formazione: il giovane Jojo, confrontandosi con un sé sdoppiato e intento a liberarsi dal controllo del proprio Super-io hitleriano, passa attraverso tutte le fasi della crescita, dalla delusione all'amore, fino allo svezzamento (la morte della madre) e la presa di posizione in un mondo tutto da ricostruire.
La sceneggiatura, condita di battute paradossali e ottimi punti di tensione, passa abilmente dal comico al drammatico. Se alcune situazioni, soprattutto all'inizio, possono apparire fuori luogo e banali, la storia ben presto acquista una compattezza composita e varia, assecondata in primo luogo dalla regia perfetta.
Bisogna tenere conto che, essendo il protagonista un bambino, l'occhio stesso della macchina da presa è quello di un infante. In tal modo diventa possibile sospendere la verosimiglianza e il realismo in favore di una rappresentazione felicemente stralunata dell'epoca:
la scuola di addestramento militare può così assomigliare più a un campo scout che a un'accademia per future leve, così come l'ospite ebrea si presenta con le modalità di un fantasma generato dalla fervida fantasia del bimbo. La morte, nel mondo del bambino, esiste e si percepisce ma non viene mai mostrata direttamente: la cinepresa inquadra gli impiccati sempre parzialmente e fa un ottimo utilizzo del rapporto fra campo e fuoricampo, lasciando intuire tragedie e ammazzamenti senza mai mostrarli. Il ritmo frenetico delle scene comiche, unito a quello riflessivo di quelle più drammatiche, assieme a una tempistica delle elaborazioni di conflitto dei personaggi più che azzeccate, consente a Jojo Rabbit di non commettere gli stessi errori di patetismo, sentimentalismo scontato e umorismo maldestro di chi già aveva tentato di ironizzare sulla stessa situazione storica, come Roberto Benigni e il suo La vita è bella (1997). Lo humor nero, filtrato da una patina ironicamente da film per famiglie, rende il film effettivamente divertente senza mai scadere nell'idiozia.
La cura tecnica di Jojo Rabbit non si ferma però a una regia fluida e iperrealista e a una sceneggiatura che, salvo qualche gag un po' infantile, migliora minuto dopo minuto. Il montaggio di Tom Eagles (Selvaggi in fuga, 2016) si dimostra vario e all'altezza delle diverse situazioni: rapido nei passaggi comici, lento in quelli tragici. A titolo d'esempio, la già citata scena di Jojo che scappa cadendo dalle scale, con l'arrivo di Elsa scambiata per uno spettro, risulta a livello di sintassi un'ottima parodia del genere horror. Menzione d'onore anche per il montaggio audio, che favorisce la regia nel gioco di campo e fuoricampo, in cui ciò che non è mostrato (es. i bombardamenti, le sparatorie) è tuttavia suggerito. La fotografia di Mihai Malaimare jr. (The master, 2012; Il coraggio della verità, 2018), tanto colorata da rimandare nuovamente al succitato sguardo del bambino, nobilita i bei costumi, volutamente e nuovamente iperrealisti, di Mayes C. Rubeo (Apocalypto, 2006). Laddove la mancata ricostruzione storica, per quanto volutamente storpiata, salta con più contraddizione all'occhio è nelle scenografie di Ra Vincent (trilogia de Lo hobbit, 2012/14), forse troppo tendenti al contemporaneo.
Il cast, come il comparto tecnico, è all'altezza di un film che, con successo, evita le definizioni di genere senza mai perdere di vista un target ampio, soprattutto per fascia d'età. Oltre a una gradevole performance dei due giovani protagonisti, si segnala un'ottima Johansson che sembra voler replicare, ambientandolo settant'anni prima, il ruolo di madre amorevole, combattiva e leggermente sciroccata che le era appartenuto in Storia di un matrimonio (2019). Al premio Oscar Rockwell, adatto nei panni di un militare alcolizzato e disincantato, e allo stesso Waititi in quelli di Hitler viene purtroppo reso torto nel doppiaggio in italiano.
Ultima notazione, le musiche: se la colonna sonora originale di Michael Giacchino (Ratatoille, 2007; Up, 2010) non è certo indimenticabile, la selezione di brani di repertorio rappresenta l'ultimo colpo di genio di Waititi. Che, volendo giocare sempre sul filo della parodia bambinesca/adolescenziale e dell'anacronismo, apre il film con i Beatles e lo chiude con la versione tedesca di Heroes di David Bowie: se la scelta del brano poteva risultare opinabile, con un ennesimo rovesciamento delle aspettative la cover nella lingua di ambientazione del film fa da coda perfetta a questa favola nera ma mai cattiva, demenziale ma mai sciocca.
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