Il film segue le vicende di Judy Garland, attrice e cantante, vittima della potente industria cinematografica hollywoodiana.
Il film segue le vicende di Judy Garland, attrice e cantante, vittima della potente industria cinematografica hollywoodiana.
Il termine biopic (dalla contrazione inglese di biographical picture) indica quel genere cinematografico basato sulla ricostruzione della biografia di un personaggio realmente esistito. Negli ultimi anni si è assistito a un energico ritorno dei film a sfondo musicale (Bohemian Rhapsody, 2018; Rocketman, 2019) ma questa volta il fulcro della pellicola non risiede né attorno a un personaggio universalmente amato (Freddie Mercury) né in una caratterizzazione pop (e fin troppo buonista) della persona di Elton John. Judy racconta la vita travagliata di Judy Garland (attrice, cantante) dapprima celebrata, poi stritolata e infine dimenticata dalla demoniaca industria cinematografica hollywoodiana. Questo aspetto, seppur già trattato, ripropone Hollywood nella sua essenza primordiale: una macchina spietata volta solamente all'esaltazione del profitto e al depauperamento dell'uomo, in grado di creare super stars dal nulla e, con la stessa rapidità, distruggerle per sempre.
Regia e fotografia concorde tra loro, la prima per mano di Rupert Goold (True Story, 2015) ottima nella coordinazione dei personaggi,
ma soprattutto nell'alternare la narrazione lineare della storia con sporadici flashback, essenziali per la comprensione generale del personaggio e piacevoli (ma poco dettagliati) nell'illustrare la situazione del cinema hollywoodiano degli anni '40.
La seconda, giustamente patinata, riporta in maniera autentica i colori dell'industria dell'arte, tanto accesi ed eleganti quanto destinati a nascondere sofferenze e contraddizioni. Emerge inoltre, che il ritmo della pellicola appaia sì dinamico, ma assai controllato, complici sicuramente i movimenti di macchina, fluidi e metodici. Difetto comune a molti biopic (compreso questo) è limitarsi alla ricostruzione biografica di una personalità di un determinato periodo, senza analizzare minuziosamente lo spirito collettivo del tempo (come invece era riuscito a fare – per esempio – Velvet Goldmine, 1998). Judy infatti si limita al classico schema rise and fall incentrato solo su di lei, trascurando immancabilmente ogni personaggio secondario, destinato a sopravvivere solo grazie alla presenza della protagonista. È pur vero però che l'arco narrativo di quest'ultima viaggi armoniosamente in parallelo a quello evolutivo: gli stati d'animo provati dal personaggio di Judy (quali ansia, depressione…) vengono alimentati e/o modificati con lo stesso modus operandi (spesso improvviso) con i quali queste stesse sensazioni si presentano normalmente all'essere umano.
La sceneggiatura, distratta ma sufficiente, è resa interessante soltanto grazie al ricorso dei flashback e ad alcuni dialoghi effettivamente divertenti. La chiave di volta è l'interpretazione attoriale: perfetta per il ruolo, gracile e dalle movenze tremolanti, Renée Zellweger (Chicago, 2002; Cold Montauin, 2003) convince il pubblico (quello americano in particolare) scalzando tutti i rivali per la corsa agli Academy Awards (probabilmente), dopo già essersi aggiudicata Screen Actors Guild Award, Golden Globe e BAFTA. L'attrice dà il meglio di sé in due occasioni: nelle espressività facciali, che esprimono genuinamente il lungo travaglio del personaggio di Judy (lode al reparto del trucco), e durante le esibizioni musicali, magnificamente realizzate.
In definitiva la pellicola si presenta come un prodotto di buona fattura, in grado di farti emozionare, e che, nonostante gli evidenti limiti di sceneggiatura (e cast), riesce a descrivere discretamente gli effetti dell'industria cinematografica americana e offre infine anche ottimi spunti a livello musicale.
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