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Yorgos Lanthimos

Dogtooth | Recensione | Unpolitical Reviews

Scheda:

poster di Dogtooth
Titolo Originale:
Κυνόδοντας
Regia:
Yorgos Lanthimos
Uscita:
27 agosto 2020
(prima: 1/06/2009)
Lingua Originale:
el
Durata:
94 minuti
Genere:
Dramma
Soggetto:
Sceneggiatura:
Yorgos Lanthimos
Efthymis Filippou
Fotografia:
Thimios Bakatakis
Montaggio:
Yorgos Mavropsaridis
Scenografia:
Elli Papageorgakopoulou
Musica:
Produzione:
Yorgos Lanthimos
Yorgos Tsourgiannis
Produzione Esecutiva:
Iraklis Mavroidis
Angelos Venetis
Casa di Produzione:
Greek Film Centre
Boo Productions
Horsefly Productions
Budget:
$275 mila
Botteghino:
$110 mila
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Redazione

8

Pubblico

Redazione
Pubblico

Cast:

Father
Christos Stergioglou
Mother
Michele Valley
Son
Hristos Passalis
Older Daughter
Angeliki Papoulia
Younger Daughter
Mary Tsoni
Christina
Anna Kalaitzidou
Colleague
Steve Krikris
Secretary
Sissi Petropoulou
Dog Trainer
Alexander Voulgaris

Trama:

Anticipazione

Trama Completa

Una coppia di genitori cresce i suoi tre figli in una casa isolata dal resto del mondo, senza che questi possano avere alcun contatto con l'esterno.

Recensione:

Prima di girare i più noti e celebrati Il Sacrificio del Cervo Sacro (2017) e La Favorita (2018), Yorgos Lanthimos ha diretto Kynodontas, pellicola forse poco nota in Italia a causa della sua mancata distribuzione, ma il cui valore trascende qualsiasi logica di mercato, meritando particolare attenzione. Una cosa va detta già in premessa: Kynodontas non è un film facile, adatto a qualsiasi pubblico; questo sia a causa della sua cripticità, sia per la violenza psicologica a cui costringe lo spettatore, catapultato sin dalla prima scena in un mondo in cui parole apparentemente normali e insospettabili (come “mare” o “escursione”) celano significati tanto assurdi quanto disorientanti (rispettivamente “un particolare tipo di poltrona” e “un materiale per produrre pavimenti”).

Ma analizziamo tutto con ordine e partiamo dal titolo, la cui disamina può risultare significativa ai fini di una più chiara comprensione del film. Kynodontas in greco vuol dire “canino”. L'etimologia della parola greca (così come quella italiana, la quale, passando per il latino, deriva indirettamente proprio dalla prima) rimanda a κύων, κυνός, ὁ (kyon, kynòs), ovvero al cane, animale chiave della pellicola. È un cane che i genitori sono in procinto di acquistare (appena avrà terminato il suo addestramento) ed è proprio come un cane che addestrano ciascun figlio, ricompensandolo con futili adesivi in caso di prestazione fisica soddisfacente e mortificandolo con la violenza in caso di errore. E, ancora, così come nel mondo reale il padrone lancia un bastone al suo cane attendendo che questo glielo porti indietro, allo stesso modo, nel film, la madre lancia un aereo giocattolo ai suoi figli, premiando chi riesce ad impadronirsene più velocemente. Proprio in quest'ottica, appare ancora più paradossale come a terrorizzare i tre figli (o meglio, i tre cagnolini), sia un innocuo gatto, l'animale che per antonomasia questi dovrebbero respingere. Ed ecco allora che subito il padre inizia l'addestramento: tutti a quattro zampe, pronti ad abbaiare, proprio come cani, animali da allevare piuttosto che figli da crescere. Non è dunque un caso che il dente da perdere per ottenere la libertà e l'emancipazione sia proprio il canino. Solo con la caduta del Kynodontas è possibile l'affrancamento dalla condizione di cane e la conseguente trasformazione in essere umano. E non è nemmeno un caso che il titolo internazionale attribuito al film non sia stato né Canine, né Eyetooth (entrambi lemmi della lingua inglese atti ad indicare il canino), bensì Dogtooth, un loro sinonimo che meglio dei precedenti riesce ad esprimere il concetto di canino inteso più strettamente come “dente del cane”.


Al di là di qualsiasi disquisizione etimologica e meramente allegorica, la pellicola si presta a plurime interpretazioni, favorite da una sceneggiatura piuttosto scarna, connotata da dialoghi e situazioni talmente paradossali e stranianti da far risultare impossibile una comprensione univoca della semantica.


Quel che è certo, è che Lanthimos abbia attinto almeno da due filosofi: da una parte Platone, dall'altra Heidegger. L'intero film può essere inteso come una vera e propria trasposizione cinematografica del mito della caverna. I figli crescono isolati dal resto del mondo, vivendo chiusi in casa e prendendo per vere cose solo fittizie (basti pensare agli aeroplani giocattolo che sono convinti cadano dal cielo) proprio come i prigionieri della caverna platonica prendevano per vere le ombre che mostravano sulla parete il riflesso delle statuette e non le statuette in sé. Se però Platone dà un epilogo al suo mito, mostrando così tutta la brutalità intrinseca nella verità (ἀλήθεια, aletheia, letteralmente, ciò che non è nascosto), Lanthimos lo lascia scrivere allo spettatore, libero (lui sì) di immaginare se il bagagliaio sia il simbolo di affrancamento o di una nuova prigionia. Potentissima in tal senso l'ultima scena, che mostrando il punto di vista della sorella maggiore regala per la prima volta qualcosa di vero: il buio; forse tragico, ma di certo autentico e finalmente non artefatto. L'altra componente filosofica della pellicola non può che essere di matrice ermeneutica. Martin Heidegger scriveva: “Il linguaggio è la casa dell'essere e nella sua dimora abita l'uomo”. Per farla breve, l'essenza di una cosa risiederebbe nel fatto che questa venga comunicata. Già il solo fatto che nessun figlio abbia un nome risulta in tal senso estremamente significativo. Nella logica heideggeriana i figli sono collocati al di fuori della casa dell'essere, non appartenendo quindi al mondo umano. Solo la figlia maggiore a un certo punto sceglierà il nome di Bruce. Non è un caso che a partire da quel momento, la ragazza acquisirà per la prima volta una sua essenza e, pur rispettando rigorosamente le rigide regole domestiche (privandosi quindi del canino), troverà la forza per entrare nella dimora dell'uomo. Ma v'è di più. Come già detto in precedenza, l'ermeneutica è utilizzata sin dalla prima scena per catapultare il pubblico in un mondo a lui estraneo. Se per lo spettatore il mare è una vasta distesa d'acqua salata, per i figli è solo una poltrona. Stando sempre alla logica heideggeriana, il mare esiste quindi sia per lo spettatore, che per i figli, pur rappresentando due cose completamente differenti. Questo vuol dire che lo spettatore e i figli abitano due case evidentemente diverse e che, agli occhi del primo (il quale sa che il mare è una vasta distesa d'acqua salata e non una poltrona) i secondi appaiono come perfetti sconosciuti. Per lo spettatore dunque, quella dei figli (peraltro senza nome), semplicemente non è vita e non può esserlo fino a quando non realizzeranno che il mare è una vasta distesa d'acqua salata e non una poltrona.

Ebbene, riuscire a mettere in scena tutto ciò in modo così potente ed efficace, non è certo da tutti. Solo cambiando il significato di alcune parole (e quindi la loro essenza) Lanthimos è riuscito a creare un agghiacciante mondo distopico, senza ricorrere ad eventi apocalittici o fantascientifici. Tutto accade in un'insospettabile casa di campagna, dove a mutare non sono il clima, la salute, il tempo o lo spazio (elementi ricorrenti dei film distopici) ma il solo linguaggio. Nulla di più affascinante.

Dal punto di vista strettamente tecnico, il film risulta inappuntabile. L'eccezionale regia predilige la stasi, soprattutto nella prima parte della pellicola, costruendo dei quadri visivamente notevoli nella loro semplicità e rendendosi più dinamica in maniera direttamente proporzionale allo sviluppo esistenziale della figlia maggiore. Fotografia pulitissima, chiara e luminosa, in grado di impreziosire il contrasto con rari momenti bui (su tutti, quello finale, di cui si è già detto) e di valorizzare una scenografia tanto spoglia quanto straniante. Monumentali anche le interpretazioni attoriali, estremamente fredde, quasi mortuarie, in perfetta sintonia con l'asetticità stilistica e semantica del lungometraggio. Degni di nota anche i costumi e il trucco: tutti i vestiti sembrano uscire dallo stesso armadio, eccetto quelli di Christina, non a caso l'unico personaggio esterno al mondo familiare e l'unica a risultare truccata e con una messa in piega più definita delle altre donne. Si tratta pur sempre di dettagli, ma particolarmente significativi nel veicolare il messaggio di fondo.

L'unico limite del film, come già si è avuto modo di scrivere in premessa, è sicuramente la sua cripticità. Se per un bacino di pubblico questa può costituire un vero e proprio valore aggiunto, a molti spettatori può risultare difficoltoso guardare un lungometraggio dal significato tanto nascosto, oltre che complesso e per nulla univoco. Nonostante tutti i pregi sin qui enunciati pertanto, alla fine del film, il rischio di rimanere insoddisfatti è concreto. A prescindere da qualsiasi opinione personale però, Kynodontas resta una pellicola tecnicamente pregevole, semanticamente profonda, che qualsiasi amante di Lanthimos non può fare a meno di visionare.

A cura di Mattia Liberatore.
Pubblicato il 23 aprile 2020.

Pro:

  • Pellicola semanticamente potente e filosoficamente significativa.
  • Componenti tecniche ed estetiche pregevoli.
  • Interpretazioni attoriali del cast.

Contro:

  • Cripticità che potrebbe risultare difficoltosa per alcune fette di pubblico.
  • Assenza di un messaggio univoco che potrebbe confondere lo spettatore sul reale significato della pellicola.

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