Una bambina giapponese si ritrova in una città popolata di spiriti e streghe. Fra metamorfosi e incantesimi, dovrà spezzare un maleficio per liberare i propri genitori, trasformati in maiali.
Una bambina giapponese si ritrova in una città popolata di spiriti e streghe. Fra metamorfosi e incantesimi, dovrà spezzare un maleficio per liberare i propri genitori, trasformati in maiali.
Unico anime ad aver vinto, finora, l'Oscar come migliore film d'animazione nel 2003, La città incantata può essere considerata la summa sia del genere, che dell'opera del regista Hayao Miyazaki e del suo Studio Ghibli. La trama, la descrizione e il ricco affresco di personaggi e situazioni sono infatti intessute di quella cultura giapponese a cui noi occidentali, anche grazie al grande successo mondiale dell'animazione nipponica, non siamo del tutto estranei.
Vi sono innanzitutto gli spiriti della natura, entità soprannaturali e tuttavia connesse con il mondo concreto degli umani; vi sono draghi e mostri, visti come elementi cosmici privi della negatività infernale che la tradizione occidentale ha attribuito loro. Vi si ritrova soprattutto la tematica del racconto di formazione adolescenziale basato sulla scoperta di sé attraverso gli altri: un fortunato filone che attraversa tutto il modo degli anime e dei manga, dallo storico Neon Genesis Evangelion (1995) di Hideaki Anno alle ultime opere di Makoto Shinkai (Your name, 2016).
La protagonista Chihiro, da bambina ingenua e inconscia del mondo, soffre una perdita/inversione di ruoli rispetto ai genitori (cui lei deve badare), assume a sé degli incarichi di responsabilità che implicano il riconoscimento di un Altro da sé (gli spiriti, il Senza-volto, …) e ha come termine di confronto Haku. Ritorna, infine, al mondo comune arricchita e cresciuta.
Vi sono, infine, più che semplici richiami a due tematiche storiche per lo stesso Miyazaki: l'ecologia, presente per il regista fin da Nausicaa nella valle del vento (1984), e la passione per il volo (qui rappresentato dalle belle sequenze del drago) che risale a Porco rosso (1992).
La città incantata, sotto l'aspetto tecnico, raggiunge la perfezione e definisce nuovi canoni per lo Studio Ghibli. La fotografia di Atsushi Okui e le musiche di Joe Ishaishi e Youmi Kimura, tutti collaboratori abituali di Miyazaki, fanno risaltare la componente fantastica e immaginifica della storia.
L'invenzione di un mondo altro, sospeso fra eternità e attualità, eppure così prossimo ad una parodia del nostro, è ciò che ha reso il film un punto di riferimento iconico.
Dove invece il film diventa di più difficile fruizione, è nella sceneggiatura dello stesso Miyazaki, che spesso tende più a essere funzionale alla simbologia sottesa: ciò a scapito della leggibilità della storia e dei personaggi. Il che non è un difetto intrinseco al film, ma il frutto di un fraintendimento che l'Occidente, e l'Italia in particolare, ha sempre avuto con l'animazione giapponese. Che essenzialmente è genere narrativo fortemente autoriale e dedicato a un pubblico tutt'altro che infantile. Basti pensare che il soggetto stesso de La città incantata è letterario, tratto da un romanzo di Sachiko Kashiwaba edito in Italia solo anni dopo l'espulsione del successo di Miyazaki.
Sarebbe opportuno, da parte dei distributori (e di certi canali televisivi, tristemente noti da noi per le censure sui cartoni giapponesi) comprendere come la filosofia, i riferimenti metafisici e di conseguenza l'incedere narrativo delle produzioni nipponiche non sia paragonabile ai prodotti che ci aspettiamo da Disney, Pixar e altre case di produzione occidentali.
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