Nella Roma mondana che si affaccia agli anni ‘60, un giornalista di scoop giornalistici coltiva l'ambizione di scrivere romanzi.
Nella Roma mondana che si affaccia agli anni ‘60, un giornalista di scoop giornalistici coltiva l'ambizione di scrivere romanzi.
Se c'è un film che ha segnato un'epoca in Italia, questo è senza alcun dubbio La Dolce Vita di Fellini (I Vitelloni, 1953; La Strada, 1954). La pellicola, infatti, non si è limitata a rappresentare sul grande schermo le contraddizioni della società capitolina che, spavalda, si affacciava ai favolosi anni ‘60, ma si è spinta oltre, avendo contribuito addirittura a plasmarla. Solo a titolo esemplificativo può essere sufficiente notare come il titolo del film (vincitore del premio Oscar per i migliori costumi del 1962) sia entrato a far parte del lessico comune per indicare il classico maglione a collo alto (definito per l'appunto dolcevita in riferimento alla scena finale, in cui Mastroianni indossa una camicia e un foulard che osservati a media distanza sembrano proprio ricordare quel tipo di maglia) o come il cognome di un personaggio (Paparazzo) sia divenuto il lemma con cui si è oggi soliti definire il mestiere del fotoreporter di riviste scandalistiche. Questi soli motivi potrebbero sembrare sufficienti per classificare il film come un capolavoro indiscusso della storia del cinema. Ciò nonostante, il percorso logico che in questa sede vi proponiamo di intraprendere è inverso: La Dolce Vita non è un gran bel film per il clamoroso successo e il dirompente impatto che ha ottenuto nella società italiana, bensì è riuscito ad ottenere quell'impatto e quel successo proprio perché è un gran bel film. Occorre quindi fare lo sforzo di lasciar da parte tutte le molteplici componenti extra-cinematografiche che attorniano la pellicola ed entrare nel merito del lungometraggio per analizzarlo, come sempre, nel modo più oggettivo e analitico possibile.
Iniziamo con il dire che ogni componente tecnica ed estetica del film rasenta la perfezione.
La regia di Fellini compie un enorme balzo in avanti rispetto ai suoi precedenti lungometraggi, rivelandosi espressiva e potente come mai prima d'ora. La cinepresa si dimostra capace di seguire il protagonista sia nel suo caotico peregrinare senza senso, sia nelle scene più liriche e riflessive, consentendo allo spettatore di sentirsi parte integrante del racconto.
La fotografia in Totalscope (per l'ultima volta curata da Otello Martelli) riesce inoltre a valorizzare ogni scena, utilizzando un bianco e nero straordinario, che sembra talvolta brillare di luce propria. Eccezionali risultano anche le musiche (diegetiche e non) perfettamente abbinate ad ogni scena in cui vengono inserite; una menzione speciale merita a tal proposito un giovanissimo Adriano Celentano, che travolge lo spettatore con un'irresistibile esibizione rock‘n'roll. Al successo del film, contribuisce inoltre Marcello Mastroianni, che si rivela la scelta vincente di Fellini, il quale, pur di scritturarlo, discusse aspramente con il produttore Dino De Laurentiis, che avrebbe preferito affidare il ruolo di protagonista a una stella del cinema hollywoodiano come Paul Newman. Mastroianni riesce a calarsi perfettamente nella complessità che appartiene al personaggio di Marcello, offrendo una delle migliori interpretazioni della sua brillante carriera. Anche le numerose donne che si avvicendano al suo fianco dimostrano di essere alla sua altezza, non facendo mai avvertire quel divario normalmente percepibile accanto a un grande attore.
Un ruolo chiave è ricoperto dalla monumentale scenografia, che contribuisce enormemente all'iconicità della pellicola, ma che risente del divario tra scene girate in loco (come quella della Fontana di Trevi, non a caso tra le più celebri della storia del cinema) e scene girate sugli oltre 80 set allestiti a Cinecittà (piuttosto debole, soprattutto agli occhi di oggi, risulta in tal senso la riproduzione dell'interno della cupola di San Pietro). Ciò nonostante Roma (come già ne Lo Sceicco Bianco, 1952) si impone come indiscussa co-protagonista del film, di cui Fellini riesce a cogliere le contraddittorietà sintomatiche di un intero Paese, passato troppo in fretta dal disastro bellico al boom economico. La capitale risulta moderna e allo stesso tempo agreste (emblematica a tal proposito la scena di Sylvia, trasportata a bordo di una lussuosa auto blu costretta a farsi largo tra un gregge di pecore), una città di santi e di prostitute, al contempo abitata da rustici ignoranti e fini intellettuali. Non a caso Roma viene descritta da Marcello come una “giungla tiepida e tranquilla, in cui ci si può nascondere bene”, un luogo perfetto per un paparazzo, ma estremamente pericoloso per chi, come lui, è in cerca di sé stesso e rischia continuamente di perdersi. Tanto più se la perdizione pervade d'improvviso anche chi, come Steiner, sembra stagliarsi “come una guglia gotica”, tanto in alto da non riuscire a sentire “più nessuna voce da lassù”, nonostante la terribile consapevolezza di essere un uomo “non più alto di così” [mostrando una piccola lunghezza tra il pollice e l'indice, ndr].
Approfittando dello scambio di battute appena citato tra Steiner e la Poetessa, veniamo dunque ad una delle tematiche cardine del film, ovvero quella della incomunicabilità. La pellicola si apre con la statua del Cristo trasportata in elicottero e con Marcello e Paparazzo che attratti da alcune belle ragazze non riescono a comunicare con loro a causa del rumore dell'elica. Evidente in questo caso il collegamento con il finale, dove, dopo aver trovato in spiaggia una manta morta “da tre giorni” che sembra “non riuscire a comunicare alcunché”, Marcello non riesce a comunicare con Paola a causa del fragore del mare. Altrettanto evidente risulta pertanto il riferimento al divino (con la manta che simboleggia la morte del Cristo e Paola emblema della Grazia) e al conseguente isolamento definitivo tra il sacro e il profano. Ne La Dolce Vita la vera incomunicabilità sembra infatti esistere tra il mondo spirituale e quello materiale, entrambi alla continua ricerca di un incontro che pare tuttavia non giungere mai. È per questo motivo che, soprattutto in Italia, il film ha spaccato in due il mondo cattolico, diviso tra chi ne ha riconosciuto lo spirito cristiano (lodato dal gesuita Angelo Arpa e oggetto della critica di Pier Paolo Pasolini) e chi non è riuscito ad andare oltre le scene troppo scandalose e provocanti per il tempo; non c'è dunque da meravigliarsi se il Vaticano abbia contestato apertamente l'opera felliniana e l'Osservatore Romano al tempo ribattezzò il film intitolandolo “La Sconcia Vita”. La risposta forse più efficace alle pesanti critiche giunse però dalla Francia, dove il critico Alain de Benoist affermò che ad essere scandaloso non era il film, ma ciò che denunciava. Ad ogni modo, il simbolismo della pellicola si presta a molteplici letture, che vanno ben oltre quella strettamente cristiana. Lo spettatore, di certo affascinato e conquistato da una così grande bellezza, può dunque sentirsi libero di trarre le conclusioni che preferisce.
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