Nel Pacifico del 1942, si seguono le varie e alterne vicende di un gruppo di soldati alle prese con la conquista di una postazione nemica.
Nel Pacifico del 1942, si seguono le varie e alterne vicende di un gruppo di soldati alle prese con la conquista di una postazione nemica.
Terrence Malick è forse uno degli autori cinematografici contemporanei per i cui film il termine «capolavoro» risulta più controverso. Osannato dagli uni per il controllo fortemente espressivo della macchina da presa e l'approccio filosofico alla narrazione, biasimato dagli altri per il suo portare all'estremo una poetica di totale coincidenza del pian etico con quello estetico dell'opera. Se già il suo esordio La rabbia giovane (1978), pur inserendosi nel solco del road movie tipicamente neo-hollywoodiano sulle coppie di giovani e dannati in fuga, si distingue per una maniera decisamente più lirica di trattare una tematica alquanto dinamica, ne La sottile linea rossa il confronto è con il genere bellico. Il quale non può prescindere dai capolavori di Stanley Kubrick Orizzonti di gloria del 1957 (per le dinamiche suicide e letalmente incuranti del battaglione) e Full Metal Jacket del 1987 (per la severità dei superiori). Tuttavia, il modello cui sembra rifarsi maggiormente Malick è, se possibile, ancora più eccelso: l'Iliade di Omero, in quanto lenta, minuziosa, gloriosa e tuttavia umanissima narrazione collettiva di una guerra come pretesto per raccontare del dramma stesso dell'esistenza.
La sceneggiatura, di Malick dall'omonimo romanzo di James Jones, si dipana effettivamente su più linee narrative, cogliendo gli archi di realizzazione di differenti personaggi interfacciati con il medesimo contesto.
Estremo è il ricorso a simbolismi di carattere naturale: il coccodrillo delle prime sequenze, libero e poi catturato, così come l'uccellino moribondo alla nascita, sono sufficientemente esplicite a significare la perdita dell'innocenza e della stessa umanità dei soldati, gettati in una natura maestosa e indifferente e al soldo di un sistema che può promettere loro solo morte e schiavitù.
L'impostazione da grande romanzo storico collettivo riesce a comporre un affresco indubbiamente espressivo e affascinante. Tuttavia propri a livello di sceneggiatura risiedono alcuni difetti. Il primo è l'utilizzo della voice-over, a volte eccessiva, a volte proprio superflua in quanto verbosa e a scapito della bellezza delle immagini. Inoltre, la giostra di personaggi talvolta non si alterna con la dovuta chiarezza, rendendo non facile e talvolta priva di ritmo la visione. Soprattutto nella seconda metà del film, l'incedere ieratico del racconto perde un po' di aura mito-poietica per diventare effettivamente faticoso.
È nell'immagine che Malick trova la propria espressività più felice. La regia lavora alla perfezione nella resa della tensione, con un utilizzo espressivo e pienamente consapevole del mezzo cinematografico. Le soggettive dei soldati immergono lo spettatore in un mondo sommerso dal silenzio inquietante e misterioso dell'erba alta, ripresa dal basso. Utilizzo ottimo anche delle carrellate circolari per offrire un quadro generale delle situazioni. Il taglio documentaristico e schietto è accostato al disvelamento lirico, quasi epifanico, della Natura ripresa in chiave iperrealista. A tal proposito, è ottima la fotografia di John Yoll (doppio premio Oscar per Vento di passioni, 1994, e Braveheart – Cuore impavido, 1996), con magnifici punti macchina su soggetti animali e umani e quadri ambientali.
Montaggio sonoro di Billy Weber e Leslie Jones ottimo nell'alternare pieni e vuoti, con un realismo più che documentaristico della resa ambientale. La colonna sonora del premio Oscar Hans Zimmer (Inception, 2010; Blade Runner 2049, 2017), per quanto meno caratterizzata che altrove, è molto adeguata nell'accompagnare i crescendo narrativi. Quanto alle interpretazioni, si segnala in cast primario è secondario di ottima fattura, con interpreti che emergono senza stagliarsi al di là del proprio ruolo all'interno di una dinamica collettiva.
Sette nomination agli Oscar e numerosi altri riconoscimenti conseguiti, il terzo film di Malick connette la riflessione sulla grande Storia a quella sulle storie di ogni singolo attore, e l'esistenza di questi ultimi al mistero ultimo del confronto con la Natura. Il pregio della profondità di pensiero, quando vuole esprimersi con il linguaggio letterario più che con quello delle immagini, appesantisce talvolta l'opera. La mano inconfondibile e la possanza narrativa la rendono una pietra miliare del genere, capace di collocarsi fra i grandi maestri e i discepoli a venire, fra cui si colloca il recente 1917 di San Mendes (2019), quasi opposto per linearità della storia.
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