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Roberto Benigni

La vita è bella | Recensione | Unpolitical Reviews

Scheda:

poster di La vita è bella
Titolo Originale:
La vita è bella
Regia:
Roberto Benigni
Uscita:
20 dicembre 1997
(prima: 20/12/1997)
Lingua Originale:
it
Durata:
116 minuti
Genere:
Commedia
Dramma
Soggetto:
Roberto Benigni
Vincenzo Cerami
Sceneggiatura:
Roberto Benigni
Vincenzo Cerami
Fotografia:
Tonino Delli Colli
Montaggio:
Simona Paggi
Scenografia:
Luigi Urbani
Musica:
Nicola Piovani
Produzione:
Gianluigi Braschi
Elda Ferri
Produzione Esecutiva:
Mario Cotone
Casa di Produzione:
Melampo Cinematografica
Budget:
$20 milioni
Botteghino:
$230 milioni
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Redazione

5-

Pubblico

Redazione
Pubblico

Cast:

Guido Orefice
Roberto Benigni
Dora
Nicoletta Braschi
Giosué Orefice
Giorgio Cantarini
Eliseo Orefice
Giustino Durano
Ferruccio
Sergio Bini Bustric
Signora Guicciardini
Lidia Alfonsi
Direttrice
Giuliana Lojodice
Rodolfo
Amerigo Fontani
Bartolomeo
Pietro De Silva
Vittorino
Francesco Guzzo
Elena
Raffaella Lebboroni
Madre di Dora
Marisa Paredes
Dottore Lessing
Horst Buchholz
German Auxilliary
Adelaide Alaïs
German Auxilliary
Verena Buratti
German Corporal
Hannes Hellmann
German Major at Party
Wolfgang Hillinger
Bruno
Antonio Prester
Dora's Maid
Gina Rovere
German Auxilliary
Laura Susanne Ruedeberg

Trama:

Anticipazione

Trama Completa

Seconda Guerra mondiale: un ebreo toscano, deportato in un campo di concentramento, fa credere al figlio di trovarsi all'interno di un innocuo gioco di ruolo.

Recensione:

Una delle più celebri battute della serie televisiva Boris (2007-2010), prodotta da Fox Italia, recita: «Maledetti toscani! Con la loro h aspirata e il loro umorismo da quattro soldi hanno rovinato l'Italia!». Dire che Roberto Benigni abbia rovinato l'Italia, oggettivamente, è fuori luogo: in realtà, sembra che sia stato il cinema italiano a rovinare Benigni. Il comico toscano, infatti, ha vissuto una parabola artistica alquanto discendente: dopo gli esordi deflagranti e politicamente scorretti in televisione, a portarlo al cinema sono due ottimi autori quali Giuseppe Bertolucci (Berlinguer ti voglio bene!, 1977) e l'americano Jim Jarmusch, regista del recente Paterson (2017), con piccole perle di surrealismo quali Daunbailò (1986). Si ricordi inoltre che Benigni ha recitato pure per il più acclamato e originale regista italiano di sempre, il plurimo premio Oscar Federico Fellini, in La voce della luna (1990).

Le note più controverse, per Benigni, arrivano quando è lui direttamente a mettersi dietro la cinepresa e ad assumere pieno controllo della situazione: se però Tu mi turbi (1983), il cult Il piccolo diavolo (1988) e, in misura molto minore, Johnny Stecchino (1991), possono ancora contare sul buon bilanciamento fra gusto casereccio della risata amara, verve toscana un po' anarchica e umorismo demenziale da film slapstick, è proprio con il successo planetario de La vita è bella che il comico si picca di diventare filosofo e, ormai dimentico della grande energia che lo aveva reso un ottimo interprete degli anni 80 italiani, dà adito a uno dei film italiani più sopravvalutati di sempre. Idolatrato in America (dove, sia detto senza polemica, gli stereotipi filmici sull'Italia hanno più successo del cinema nostrano veramente innovativo, che seppur in sordina è sempre esistito) e vincitore di tre Oscar, di cui uno solo davvero meritato, La vita è bella è storicamente il quinto film di maggiori incassi nel nostro paese. Da lì in poi, Benigni tenterà di replicarne la formula dolce-amara senza troppo successo come autore.

Ovviamente, visto il grande successo di pubblico e di critica ricevuto, è necessario rendere conto delle ragioni per cui La vita è bella è stato tanto considerato. Il soggetto, di Benigni e di Vincenzo Cerami (collaboratore abituale, nonché scrittore e stimato docente), di base sarebbe ottimo: offrire, attraverso lo sguardo innocente del bambino e del comico (accomunati da una modalità di trasfigurazione della realtà in comune con la poesia), un modo nuovo di raccontare la più grande, e cinematograficamente celebre, tragedia del Novecento. Operazione rischiosa e coraggiosa allo stesso tempo, che rimanda a ciò che Charlie Chaplin fece con Il grande dittatore (1941): la differenza sta nel fatto che Chaplin, come tutti gli abitanti in paesi Alleati all'epoca, era ignaro di quanto succedeva davvero nei campi di concentramento nazisti. La portata potenziale del film di Benigni poteva essere tale, quindi, ma inizia a perdersi già nella sceneggiatura.

A partire, questo, per la divisione in due sezioni nette della trama, di cui una è poco più che una lunga cartolina dei paesaggi italiani ad uso e consumo del pubblico americano. In questa prima, e cinematograficamente più infausta, parte, tutto appare ovattato e semplificato: i fascisti sono dei buffoni (semplificazione storica di cui l'Italia sta forse pagando ancora le conseguenze), la campagna aretina un posto meraviglioso e la madre italiana sempre una principessa. Benigni, da voce della sinistra provinciale e contadina, si è trasformato in un individuo qualunque con aspirazioni piccolo-borghesi da fiaba per sedicenni: i suoi lazzi comici, altrimenti efficaci, si riducono a piccole pagliacciate autocompiaciute. Il geniale sito internet Spoileriamo.it, parlando del tristemente noto Pinocchio (2002), lo definì in modo caustico «storia di un comico di mezza età che sogna di diventare un bambino vero». Tendenza che sembra essersi presentata anche in La vita è bella. Potremmo anzi dire che in tal caso si tratta di un comico che sogna di diventare divertente.

La seconda parte del film, cruciale per il significato complessivo dell'opera, non riesce a risollevarsi. Si potrebbe parlare dei vari reduci dall'Olocausto che si sono sentiti offesi dalla rappresentazione di Benigni dei campi di concentramento: non è materia di Unpolitical Reviews, che si occupa di analizzare il film come testo autosufficiente. Pertanto potremmo dire che, rispettosa o meno che sia, è proprio la rappresentazione in sé a non funzionare: a partire dalle SS, sorprendentemente più spietate rispetto ai gerarchi nostrani (a scapito quindi del realismo non storico, ma interno alla coerenza narrativa). I difetti presenti in precedenza continuano:


buchi di trama, omissioni a volte pretestuose per dare spazio a poco riusciti intermezzi comici, commistione infelice di generi. In definitiva, la storia sembra non andare in una direzione ben precisa:


non si capisce se si sta assistendo a un film di guerra, una commedia, una fiaba o un film di fantascienza (fantascienza infatti è che gli americani siano stati i protagonisti della liberazione dei capi: storicamente è stato l'esercito sovietico, e qui si capisce quanto Benigni strizzi l'occhio all'approvazione facile sul mercato statunitense).

Altro problema, che dalla scrittura si riversa direttamente sulle interpretazioni, sono i personaggi. Piatti, appena abbozzati fuori contesto: le loro motivazioni e reazioni agli eventi sono ora irrealistiche e bislacche, ora eccessivamente melodrammatiche. Se ci si trovasse di fronte a un film comico o a una telenovela sentimentale ciò sarebbe comprensibile, ma in questo calderone di spunti più o meno politicamente corretti risulta disorientante. Nicoletta Braschi si impegna a utilizzare al meglio le due espressioni timbriche e facciali in grado di produrre, senza successo. Benigni, incomprensibile Oscar come miglior attore, ha lo stesso problema che si diceva in merito alla scrittura: se diretto da altri e versato nella schietta comicità è un mattatore unico e irresistibile; amalgamato in patetiche scene di pietismo spicciolo e drammatico risulta forzato e poco credibile. Gli altri interpreti non rappresentano nulla di particolare, se non quanto la sceneggiatura sia povera.

Sull'aspetto tecnico, si segnala uno dei soli due punti favorevoli del film. La fotografia di Tonino Delli Colli, storico direttore per Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Mario Monicelli e tanti altri maestri del cinema italiano riesce sempre a essere elegante e sopra la media qualitativa. Il montaggio di Simona Paggi (Il ladro di bambini, 1992) è invisibile: una sola transizione in più di due ore di film, per il resto nulla che salti all'occhio. Praticamente senza identità, come tutto il prodotto complessivo. Il montaggio audio segue a ruota, in una discesa di trascuratezze tecniche salvate, quasi miracolosamente, dalla colonna sonora. La quale è a cura di Nicola Piovani, collaboratore di Fabrizio de André e ricordato per tanti lavori cinematografici, fra cui Il marchese del grillo (1981) e La messa è finita (1985): la sua musica, ormai iconica, è l'unico Oscar che ci sentiamo di definire meritato. Gli altri, così come il clamore e gli apprezzamenti, sono frutto di un entusiasmo che potrebbe essere definito un grande abbaglio: La vita è bella, malgrado le sue intenzioni, non è un film ben realizzato, né rivoluzionario, né efficace nel centrare i propri obiettivi.

A cura di Michele Piatti.
Pubblicato il 11 dicembre 2019.

Pro:

  • La colonna sonora di Nicola Piovani.
  • La fotografia di Tonino Delli Colli, come il precedente grande maestro del cinema italiano.
  • Un soggetto potenzialmente buono, ma sprecato.

Contro:

  • Una sceneggiatura incerta, senza identità, inesatta e bislacca.
  • Un comparto tecnico manchevole.
  • Interpretazioni di Braschi e Benigni insufficienti, anche a causa della sceneggiatura.
  • Una tematica importante trattata senza efficacia (e doveva essere lo scopo del film).

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