Due improbabili personaggi, persi nei propri sogni, si ritrovano a vagare nella Bassa padana di notte, sotto la luce della Luna.
Due improbabili personaggi, persi nei propri sogni, si ritrovano a vagare nella Bassa padana di notte, sotto la luce della Luna.
L'ultimo film di Federico Fellini è forse anche quello più crepuscolare: una parabola fatata e surreale sulla non comprensibilità di un mondo contemporaneo ed estraneo all'autore romagnolo. Un mondo che, al poetico candore dei sogni, ha sostituito l'illusione della società dello spettacolo, consumistica e patinata. Le opposizioni fra sogno e realtà, escapismo e costrizione, che hanno accompagnato Fellini fin dai tempi de Lo sceicco bianco (1952), trovano qui una soluzione tutt'altro che consolatoria: solo i matti e i paranoici sarebbero in grado di cogliere, fuor di metafora, l'essenza delle cose, il realismo magico dell'esistenza. Una retorica, quest'ultima, che rischia forse di appesantire di facili allegorie una narrazione che altrove Fellini ha condotto con più inventiva (si vedano i capolavori La dolce vita, 1960, e 8½, 1963).
Tuttavia, per quanto le metafore siano abbastanza evidenti e la critica alla società dei consumi non eccessivamente originale, è forse proprio tale semplicità, da favola, a conferire all'ultima fatica di Fellini leggerezza e candore. Alle qualità emotive di queste ultime, si contrappongono la volgarità e il rumore della televisione, della musica contemporanea, del rave. Fellini in passato aveva cercato di fuggire dalla società capitalista, spostandosi nel tempo (Fellini Satyricon, 1969) e nello spazio (la villa estiva di Giulietta degli spiriti, 1965); nell'ingiustamente sottovalutato Ginger e Fred (1986) vi si era invece buttato a capofitto, rifiutandolo. Ne La voce della luna è evidente la dicotomia fra la campagna notturna, che sostituisce il topos del mare dei precedenti film, e gli ambienti sottoposti all'egida della televisione. La discrasia fra cinepresa e telecamera, fra occhio del cinema e occhio della pubblicità, è evidente:
per i neorealisti il cinema poteva descrivere la realtà, per i post-neorealisti quale Fellini poteva trasformarla; la televisione invece non ha più alcun riferimento a quest'ultima, preferendola mutata e falsificata in merce qualsiasi.
In tale tripudio, chi sono i veri lunatici? Il paranoico e il matto del villaggio, oppure i ragazzi che ballano sulle note di Michael Jackson, i conduttori, gli adepti dell'intrattenimento di massa (evidente la critica al berlusconismo, non come fenomeno politico ma antropologico)?
La sceneggiatura, ispirata al Poema dei lunatici (1987) di Ermanno Cavazzoni, è scritta da Fellini e dal suo collaboratore abituale Tullio Pinelli. La storyline discontinua, ondivaga e frammentata, tipica dello stile narrativo del maestro riminese (si vedano Amarcord, 1973, e Il Casanova di Federico Fellini, 1976), si costruisce attraverso episodi di incontrai stralunati, avendo sempre la Luna in cielo come riferimento fisso. Il satellite terrestre, in una sceneggiatura di ispirazione letteraria intrisa di riferimenti, racchiude in sé le più diverse caratterizzazioni: si va dalla Luna leopardiana, matrigna indifferente e tuttavia compagna dei solitari erranti, a quella di Italo Calvino, presa d'assalto dall'uomo. Non è impossibile, peraltro, rinvenire una certa comunanza fra il tono della scrittura filmica e quello, lirico e misterioso, di alcune novelle di Dino Buzzati, amico dello stesso Fellini. Ad accomunare il maestro riminese, il poeta di Recanati, l'autore delle Cosmicomiche è quello di Poema a fumetti, sono almeno tre elementi: il pessimismo vero il progresso («Le magnifiche sorti e progressive»); la resilienza, piuttosto che resistenza, quale virtù; il forte aggancio a una realtà, di nuovo, altrimenti violata, trasfigurata ora dalla poetica classica di Leopardi, ora dalla fantasia scientifica di Calvino, ora dal realismo magico di Buzzati e Fellini. Sullo sfondo restano, al di là dei riferimenti letterari, le storie di paese da cui il regista ha attinto per tutta la propria carriera, fatte di personaggi al limite del credibile e tuttavia verosimili. I dialoghi procedono senza artificio, dando quasi l'idea di essere improvvisati sul momento, esattamente come gli incontri.
La poetica della diversità, stigma e potenza di poeti, emarginati e intellettuali, viene sviluppata attraverso due personaggi differenti fra loro, così come differenti dal mondo che li circonda. Fra i pregi di Fellini, in comune con il collega Pier Paolo Pasolini, l'aver chiamato attori principalmente comici per parti assolutamente in linea con gli interpreti e tuttavia capaci di nobilitarli: entrambi i registi, peraltro, hanno in comune almeno uno di questi interpreti condannati dalla maggior parte della produzione italiana a fare da macchietta, quel Ciccio Ingrassia che in Amarcord sembra quasi anticipare il personaggio di Ivo. Paolo Villaggio e Roberto Benigni danno probabilmente le loro migliori prove di sempre, ricordando al pubblico il primo di non essere solo la maschera (geniale) del ragionier Fantozzi e il secondo di non essere solo il toscanaccio impertinente di Berlinguer ti voglio bene (1977). In particolare, non si può non notare come Benigni, se diretto in modo opportuno, abbia davvero dei momenti felici, degni dei padri nobili della comicità dolce-amara: lo si è visto nel recente Pinocchio (2019) di Matteo Garrone, così come si è visto l'opposto nei film in cui Benigni dirige se stesso (il controverso La vita è bella, 1997). A fare scattare l'alchimia fra i due protagonisti è poi l'espediente di accostarli, fra le righe, alle grandi coppie del cinema: Stanlio e Ollio, ma anche Totò e Ninetto Davoli (svariati i parallelismi fra La voce della luna e Uccellacci e uccellini di Pasolini, 1966).
La fotografia del maestro Tonino Delli Colli è splendida, capace di riportare i notturni della campagna padana con il giusto tono di poesia e di resa atmosferica. Ottime pure le musiche di Nicola Piovani, erede del compianto Nino Rota e premio Oscar 1999 per La vita è bella. Le scenografie del tre volte premio Oscar Dante Ferretti (per The Aviator, 2005; Sweeney Todd, 2007; Hugo Cabret, 2011) e dell'altrettante volte premiata Francesca Lo Schiavo per i medesimi film contribuiscono a rendere le tonalità generali del racconto: da notare, pur in location prevalentemente esterne, la presenza di elementi scenici palesemente teatrali (la Luna in primis) che, come spesso nelle opere di Fellini, sono funzionali al senso del racconto e qui provocano un senso di straniamento e magia forse ancora più evidente.
In definitiva, l'ultimo lavoro di Fellini non può definirsi una vera summa della propria opera: semmai, ne è una ennesima declinazione. Vi ritornano tematiche e immagini ricorrenti, ma la malinconia si fa più presente. Spesso accusato di eccessivo surrealismo, il maestro di Rimini ha in realtà sempre viaggiato su due binari ben evidenti: quello della propria realtà personale rispetto al mondo, vissuto attraverso la lente del ricordo e del sogno, e quello della realtà italiana in continua trasformazione. In Amarcord era il Ventennio fascista, ne Lo sceicco bianco l'Italia del sogno esotico post-bellico; ne La strada (1954) quella della povertà pre-capitalista; ne I vitelloni (1953) quella di un Paese incerto fra il rinnovamento e la stagnazione. Il rinnovamento si è trasformato poi nei caroselli di chiasso, luci e suoni de La dolce vita e 8½. Ci voleva un balzo verso il passato picaresco del Casanova per osservare, con giusta distanza e freddezza chirurgica, la degenerazione della contemporaneità sull'uomo. Infine, ne La voce della luna, vi è il definitivo abbandono alle soglie di un nuovo secolo. Fellini, fra pessimi imitatori e notevoli ammiratori (David Lynch fra gli altri), ha segnato inevitabilmente la storia del cinema e ad oggi l'aggettivo felliniano, di cui lui stesso negava di conoscere il significato, rimanda a un intero mondo. Il compito di chi scrive è analizzare e giudicare le singole opere, pertanto possiamo affidarci, per un giudizio complessivo su Fellini, a quanto dichiarato da Martin Scorsese: «È stato Fellini a spingermi verso il mio cinema. Ci sono pochi registi che hanno allargato il nostro modo di vedere e hanno completamente cambiato il modo in cui sperimentiamo questa forma d'arte. Fellini è uno di loro. Non basta chiamarlo regista, era un maestro».
Caricamento modulo