Ad un attacchino comunale viene rubata la bicicletta, senza la quale non può mantenere il suo posto di lavoro. Inizia quindi disperatamente a cercarla.
Ad un attacchino comunale viene rubata la bicicletta, senza la quale non può mantenere il suo posto di lavoro. Inizia quindi disperatamente a cercarla.
Nonostante l'insuccesso commerciale di Sciuscià (1947) sul mercato italiano, Vittorio De Sica avvertiva ancora l'esigenza di tornare sulle tragedie del vivere quotidiano, al tempo profondamente segnato dalle drammatiche conseguenze economiche e sociali derivanti dal conflitto mondiale appena conclusosi. Fu così che nel 1948 produsse, diresse e in parte sceneggiò Ladri di biciclette, universalmente considerato uno dei massimi capolavori del cinema neorealista italiano. Pur di perseguire fino in fondo la sua indagine cinematografica, basata sulla rappresentazione di un realismo quanto più puro possibile, De Sica rifiutò la ricca offerta di finanziatori americani, che volevano Cary Grant nel ruolo di Antonio Ricci, preferendo investire personalmente il suo denaro nella produzione, così da potersi avvalere di un cast interamente non professionista. A posteriori, si può dire che tale scelta si sia rivelata particolarmente indovinata, dal momento che ciascun attore riesce a ricoprire il suo ruolo con estrema naturalezza, dando vita ad interpretazioni quasi spontanee, che finiscono inevitabilmente per incrementare il realismo di fondo delle vicende. Lamberto Maggiorani, Lianella Carell e l'allora giovanissimo Enzo Staiola vestono i panni dei loro personaggi in un modo così intimo e credibile, che nessun attore professionista sarebbe stato in grado di eguagliare.
Oltre alla straordinaria interpretazione del cast, la più grande qualità del film risiede senza alcun dubbio nella sceneggiatura.
Nonostante una semplicità del soggetto disarmante, lo scopo della pellicola, inteso come motore dell'azione narrativa, si rivela semanticamente fortissimo:
al momento del primo furto, infatti, lo spettatore capisce con chiarezza che ad essere rubata non è stata una banale bicicletta, ma l'unica speranza di sopravvivenza del protagonista. Il mezzo finisce così per diventare il correlativo oggettivo della società del tempo, immersa nella miseria e disposta a tutto pur di andare avanti. La disperazione dei protagonisti è immanente e traspare da ogni loro azione, dialogo o espressione. Tutto quel che Antonio Ricci fa per riappropriarsi della sua bicicletta, si dimostra un tentativo vano, fallito probabilmente già in partenza. Lo spettatore non ha mai la sensazione di un lieto epilogo, punto fermo dello sfarzoso cinema hollywoodiano del tempo. Anche nel corso del maldestro furto finale, infatti nonostante speri con tutte le sue forze che il tentativo questa volta vada a buon fine, il pubblico in cuor suo sa che così non sarà. Drammatica realtà impressa su celluloide.
Così come nelle altre grandi opere neorealiste (su tutte Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) di Roberto Rossellini), anche Ladri di biciclette da un punto di vista strettamente tecnico presenta limiti tanto evidenti quanto coerenti con la sua semantica. La regia risulta in tal senso accademicamente povera, seppur visivamente elegante, mentre la fotografia è priva di filtri, lasciando l'immagine in un bianco e nero estremamente naturale. Vera co-protagonista della pellicola è invece la città di Roma, poche volte rappresentata con così crudo realismo. All'accuratezza di un set cinematografico, De Sica predilige infatti il fascino delle strade della Capitale, da cui, in base all'evidente differenziazione urbanistica tra mesti quartieri popolari e fiorenti zone del centro, è possibile decifrare con immediatezza la diversità delle classi sociali. L'autenticità scenografica del film si dimostra quindi un vero e proprio valore aggiunto, che contribuisce al realismo di fondo al pari di sceneggiatura e interpretazione del cast.
Per tutti questi motivi, Ladri di biciclette è oggi considerato non solo uno dei lungometraggi fondativi del neorealismo italiano, ma anche tra i più importanti e rappresentativi film della storia del cinema. Non è un caso che ad ispirarsi a questa pellicola saranno alcuni tra i più grandi registi del XX secolo, tra cui Federico Fellini (I Vitelloni, 1953; La Strada, 1954), François Truffaut (I 400 colpi, 1959) e Jean-Luc Godard (Fino all'ultimo respiro, 1963).
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