Lo Space Ranger Buzz Lightyear è in missione su un pianeta sconosciuto, dove si troverà ad affrontare imprevisti e paradossi.
Lo Space Ranger Buzz Lightyear è in missione su un pianeta sconosciuto, dove si troverà ad affrontare imprevisti e paradossi.
Quasi trent’anni dopo il primo, storico Toy Story (1995) di John Lasseter, la Pixar riprende dal suo primo capolavoro uno dei suoi personaggi più iconici in un’avventura per famiglie che attinge generosamente spunti dalla fantascienza dell’ultimo decennio. Più volte si ha l’impressione di stare assistendo ad una versione animata ora di Interstellar (2014) di Christopher Nolan per la trama sui paradossi temporali, ora a The Martian (2015) di Ridley Scott per quella relativa alla colonizzazione di pianeti inospitali. La saga di Star Wars, con la contrapposizione fra un imperatore malvagio e una resistenza, percorre con tale costanza il film da far pensare al colpo di scena su Zorg come ad una versione aggiornata di quello, celeberrimo, su Darth Vader. Se è vero che i prodotti Pixar solitamente brillano per l’originalità e la profondità delle storie (Soul del 2020 ne è un esempio lampante), la prima impressione che si ha vedendo Lightyear è che adagiarsi su un personaggio noto e su trame già viste non giovi particolarmente alla riuscita dell’operazione.
La sceneggiatura di Jason Headley e del regista Angus MacLane (Alla ricerca di Dory, 2016) dà il proprio meglio nella prima parte, con un’ottima descrizione della dinamica fra Buzz e Alisha e della portata emotiva causata dai paradossi temporali, in linea con la sensibilità tipica della Pixar. La seconda metà del film rischia invece di scadere costantemente nella banalità e nell’imperfezione. L’arco narrativo di Buzz e il suo sdoppiamento di personalità sono descritti con approssimazione, mentre i personaggi secondari sono trascurati dal punto di vista della caratterizzazione.
Dopo aver dipinto Alisha con precisione ed empatia, la nipote Izzy impallidisce quanto ad approfondimento psicologico, così come del personaggio di Featheringhamstan, apparentemente centrale all’inizio del film, si perdono le tracce.
La scelta marcata di inclusività non basta quindi a dare spessore ai ruoli, con la notevole e già segnalata eccezione di Alisha. Migliore creazione è invece Sox, degna mascotte del momento e riconferma che la Pixar dà il proprio meglio quando tratta protagonisti non umani, da Cars (2006) di John Lasseter al capolavoro WALL∙E (2008) di Andrew Stanton. I buoni sentimenti e la saggezza per famiglie sono sempre ben espressi ma, rispetto al passato, più imbrigliati nei difetti di scrittura.
Molto buone risultano invece la regia e la fotografia di Jeremy Lasky e Ian Megibben, capaci di declinare le scene d’azione nel target di riferimento senza depotenziarle: davvero se le aspettative di partenza per Lightyear non fossero state così alte, questi sarebbe potuto passare per un buon film di fantascienza. Modellazione in 3D e animazione, come sempre, sono ottime e variegate, così come il design sempre adatto alla situazione narrativa. A impreziosire il cast di doppiatori originali, infine, vi è un opportuno Chris Evans nel ruolo del protagonista e Taika Waititi in quello di Mo Morrison.
Vi è una tendenza, talvolta ingenua ma senza dubbio figlia dell’entusiasmo generato dalla casa d’animazione, a definire ogni nuovo film Pixar come il migliore della sua storia produttiva. Lightyear, fuori da ogni dubbio, si attesta nella fascia mediocre delle attualmente ventisei opere Pixar. Tuttavia, non gli si può negare una parziale riuscita che, per quanto lo renda dimenticabile, non gli impedisce di essere un discreto racconto di formazione e avventura per famiglie.
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