Un impiegato prende possesso di un appartamento abitato, in precedenza, da una ragazza suicida. La normalità cadrà, man mano, in un turbinio allucinatorio e paranoico.
Un impiegato prende possesso di un appartamento abitato, in precedenza, da una ragazza suicida. La normalità cadrà, man mano, in un turbinio allucinatorio e paranoico.
Roman Polanski (L'ufficiale e la spia, 2019) dirige, scrive e interpreta l'ultimo capitolo della cosiddetta trilogia dell'appartamento, unico ambientato a Parigi. Il primo, Repulsione (1965), ha come sfondo Londra, mentre Rosemary's baby (1968) New York. Con la capitale francese, tre grandi metropoli in apparente opposizione con la ristrettezza degli ambienti domestici, angusti e claustrofobici: l'alienazione, tuttavia, dell'individuo nell'anonimato della folla è lo stesso di quello vittima di paranoie, maldicenze e contrasti ossessivi con gli inquilini. Il filo rosso delle spietate dinamiche sociali, in spazi circoscritti, lega la trilogia a un altro recente lavoro di Polanski, il piccolo capolavoro Carnage (2011). Gli elementi comuni fra i tre, invece, possono rintracciarsi nella ricorrente figura del protagonista alle prese, da un lato, con anziani inquietanti e diabolici, e dall'altro con il crescere della propria confusione mentale e allucinatoria. Il tutto avviene nel contesto della casa, vera espressione del perturbante freudiano: unhemliche rimanda sia alla quotidianità della propria abitazione, conosciuta e frequentata, sia a ciò che dal il soggetto, pur essendogli proprio, è riconosciuto come estraneo. Un ambiente familiare, quindi, ma scisso fra ciò che è riconoscibile e ciò che è ostile (l'estraneo, l'anziano padrone di casa, la propria immagine allo specchio che si mostra schizofrenica).
L'inquilino del terzo piano presenta una regia meno espressionista di Repulsione e una sceneggiatura meno venata di acida ironia rispetto a Rosemary's baby. Tuttavia, dei tre, è forse quello che si presta a una maggiore stratificazione di significati. C'è chi ha individuato, nella scissione del protagonista fra il proprio fantasma femminile e il suo essere un maschio timido e sottomesso, una metafora della rimozione e della repressione di un'appena consapevole bisessualità. Altri invece vi hanno colto un riferimento costante a Franz Kafka e in particolare alla sua opera Il processo (1925): la sceneggiatura di Polanski e del collaboratore abituale Gérard Brach, basata su un racconto di Roland Topor, ne condivide la claustrofobia onirica, il senso di disorientamento del protagonista e l'ineluttabile incomprensibilità del proprio assurdo destino. Caratteristica, questa, che critici come Slavoj Zizek avevano colto nello scrittore ceco come anticipatrice della schizofrenia dell'individuo nel tardo capitalismo e che Polanski sembra esprimere. Vi è poi una lettura autobiografica: la differenza etnica del protagonista, assieme al suo essere escluso è costantemente sotto accusa, rimanderebbe alla stessa vicenda del regista, nonché alla questione dell'antisemitismo europeo (al centro, peraltro, dell'ultimo suo film, L'ufficiale e la spia).
Un'altra interpretazione, più metafisica, ha a che fare con la massiccia presenza di riferimenti all'Antico Egitto e al tema della mummificazione: nella mitologia egizia, l'anima sarebbe scissa in due entità, Ba e Ka. La prima è destinata a viaggiare verso l'aldilà con la morte, affrontare dure prove e tentare di guadagnarsi la beatitudine eterna; la seconda, è destinato a rimanere nell'universo mondano, essendo legata al corpo. Come si vede, si ritrovano due temi già accennati: da un lato, la scissione schizofrenica dell'individuo, il doppio, il doppëlganger come specchio perturbante di sé; dall'altro, la non possibilità di sfuggire a un destino di cui si è prigionieri. A tal proposito, l'idea di loop temporale che la sceneggiatura suggerisce è senza dubbio calzante. A esprimere al meglio tutta questa portata di riflessioni e spunti interpretativi, è la grande cura degli elementi scenici e della scenografia di Pierre Guffroy (premio Oscar 1981 per Tess, sempre di Polanski): la ristrettezza degli ambienti interni, squallidi e decadenti, è costellata di specchi, scale a chiocciola che creano spirali, finestre che, lungi dal far vedere oltre, si aggettano su altri muri e altre finestre. Giova, nell'ambiguo gioco di ombre dell'io diviso del protagonista, la fotografia di Sven Kyvist (Oscar nel 1974 per Sussurri e grida e nel 1984 per Fanny e Alexander). Non stupisce che il direttore di fotografia sia ricordato per la stretta collaborazione con Ingmar Bergman, che del doppio ha fatto una delle colonne portanti del proprio cinema.
L'ossessività della ripetizione e il tema del circolo che ritorna a sé sono magnificamente espresse anche dal commento sonoro a cura di Philippe Sarde
(premio Oscar, nuovamente, per Tess): per quanto il tema portante sia di per sé scarno e limitato, il suo ripetersi in variazioni sempre più complesse, partendo dal barocco e arrivando quasi al jazz, esprime sia l'andamento ricorsivo della storia che lo sviluppo paranoico del protagonista. Che, qui come in Repulsion, è anche sottolineato da alcuni rumori di fondo è ricorrenti (gli scricchiolii, le tubature), forse meno evidenti e martellanti rispetto al precedente ma comunque efficaci. In definitiva, il comparto sensoriale del film ne racconta la trama quasi meglio della sceneggiatura, che al netto delle ottime sequenze oniriche e dei parallelismi interni può forse sembrare oggi un po' datata, e della regia. Quest'ultima rimane in parte svantaggiata dal fatto che Polanski ricopre il doppio ruolo di regista e protagonista: laddove questi si trova dietro la macchina da presa, come nel magnifico piano sequenza dei titoli di testa, si nota una mano sicura e ardita; meno, invece, quando Polanski è in scena, per quanto l'insistenza di contre-plongée e leggeri grandangoli (visibili dei bizzarri primi piani dei volti) suggerisca quella distorsione paranoica del reale che è marchio di identità della trilogia.
Vero e proprio difetto tecnico, invece, risulta il montaggio di Françoise Bonnot (Z – L'orgia del potere, 1969; Accross the universe, 2007), spesso inesatto e per niente funzionale al racconto, nonché visibilmente inferiore alle soluzioni adottate negli altri capitoli della trilogia. La quale, con il film in questione in particolare, ha due meriti: in primis, un impatto culturale tale che i titoli sono entrati nel linguaggio comune; in secondo luogo, aver rinnovato il filone del thriller psicologico, a metà fra espressionismo e contemporaneità, con spunti che arrivano ai nuovi e migliori esponenti del genere (Enemy, di Denis Villeneuve, 2013).
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