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Federico Fellini

Lo sceicco bianco | Recensione | Unpolitical Reviews

Scheda:

poster di Lo sceicco bianco
Titolo Originale:
Lo sceicco bianco
Regia:
Federico Fellini
Uscita:
6 settembre 1952
(prima: 20/09/1952)
Lingua Originale:
it
Durata:
83 minuti
Genere:
Romance
Commedia
Dramma
Soggetto:
Federico Fellini
Tullio Pinelli
Michelangelo Antonioni
Sceneggiatura:
Federico Fellini
Tullio Pinelli
Fotografia:
Arturo Gallea
Montaggio:
Rolando Benedetti
Scenografia:
Musica:
Nino Rota
Produzione:
Luigi Rovere
Produzione Esecutiva:
Casa di Produzione:
P.D.C.
OFI
Budget:
$0
Botteghino:
$0
Carica Altro

Redazione

7.5

Pubblico

Redazione
Pubblico

Cast:

Fernando Rivoli - il sceicco bianco
Alberto Sordi
Wanda Giardino Cavalli
Brunella Bovo
Ivan Cavalli
Leopoldo Trieste
Cabiria - La prostituta
Giulietta Masina
il regista
Ernesto Almirante
Felga - La zingara del fotoromanzo
Lilia Landi
Marilena Vellardi
Fanny Marchiò
Rita Rivoli
Gina Mascetti
Assunta
Jole Silvani
Furio, il facchino
Enzo Maggio
Rina
Anna Primula
Mambroni, l'uomo in canottiera sulla spiaggia
Mimo Billi
ragioniere
Armando Libianchi
zio di Ivan Cavalli
Ugo Attanasio
Giulio Moreschi
zia di Ivan Cavalli
Elettra Zago
Oscar
Piero Antonucci
Aroldino
portiere d'albergo
Rino Leandri
cameriera
Silvia De Vietri

Trama:

Anticipazione

Trama Completa

Roma, anni 50: una giovane sposa tenta di incontrare il mito della propria vita da sognatrice, un attore di fotoromanzi che interpreta lo Sceicco bianco.

Recensione:

Primo film interamente da regista per Federico Fellini, che vi inserisce già almeno tre delle tematiche che contraddistingueranno il suo cinema a venire. In primo luogo, il rapporto fra sogno e realtà, fuga e ritorno alla concretezza: la protagonista femminile vive un'illusione di escapismo (la passione per fotoromanzi di ambientazione erotica e rosa) che si scontra con la realtà dei fatti, così come il suo comprimario si nutre di aspettative sociali insostenibili e, quindi, altrettanto illusorie.

Il secondo tema, strettamente connesso a quest'ultimo, è il mestiere del cinema stesso: che qui, come in 8 ½ (1963), è mostrato sia nel proprio fantasmagorico potere di raccontare e modificare la realtà, fino a coincidere con la vita stessa, sia nei suoi meccanismi di produzione interna, per quanto trasfigurati nel set di un fotoromanzo.

Il terzo aspetto tipicamente felliniano, qui ancora agli albori ma già ben sviluppato, è la rappresentazione di Roma, vera protagonista del film: una città caotica, miscuglio di miseria e nobiltà, rumorosa, abitata assieme da cardinali e da prostitute. La Capitale per Fellini è un universo a se stante, un oggetto quasi imprendibile eppure raccontato con così tanta ironica precisione, nelle sue contraddizioni, nei successivi La dolce vita (1960) e Roma (1972).

Il soggetto di partenza, dello stesso Fellini con il collaboratore seriale Tullio Pinelli (sceneggiatore, fra gli altri, di Amici miei, 1975) e un Michelangelo Antonioni ancora lontano dal diventare regista di film quali Blow up (1966), vede quest'ultimo nella sceneggiatura sostituito da Ennio Flaiano, altro collega di Fellini e autore anche per Mario Monicelli, Antonio Pietrangeli, Roberto Rossellini. L'idea di base della storia rientra nel classico filone delle commedie sentimentali ad equivoci, con vicende parallele, tipico di quel periodo. Visibili inoltre alcuni particolari cari all'immediato post-neorealismo italiano (le borgate, il ricorso al dialetto), che Fellini sposa all'inizio della propria carriera almeno fino a Le notti di Cabiria (1957).


Tuttavia, nella semplicità della trama e nell'ingenuità da regista esordiente, si intravedono già alcuni approcci originali di quel surrealismo stralunato che marcheranno il cinema di Fellini:


basti pensare alla comparsa di Alberto Sordi su un'altalena sospesa, irrealistica e fantasmagorica, ad alcuni movimenti di macchina in verticale lievemente espressionisti e, soprattutto, ai primi piani esasperati e teatrali, dichiaratamente anti-realistici, degli attori. Ottima, peraltro, la caratterizzazione delle opposte scenografie (gli ambienti borghesi e quelli periferici, litorali) a cura di Raffaello Tolfo. Nei notturni, invece, dà il meglio la fotografia di Arturo Gallea (Piccolo mondo antico, 1941; Pane, amore e fantasia, 1953) nel catturare una Roma non più chiassosa e colorata ma silenziosa e mistica.

Gli attori, a partire dai protagonisti fimo ai caratteristi di secondo piano, risultano fondamentali. Trieste e Bovo riescono a creare una coppia di opposti volutamente esagerati che, oltre a esprimere al meglio caratteristiche e battute della sceneggiatura, incarnano due stereotipi di grande interesse sociologico per l'epoca: la ragazza provinciale che si affaccia a un mondo inedito per l'italiano di allora, quello dei divi, dei riflettori ma anche dei luoghi esotici e della libertà di costume, da un lato, e dall'altro il conservatore bigotto e meschino che ha modo di ripensare ai propri valori. A spiccare è Alberto Sordi che, anticipando il personaggio fanfarone e indolente del successivo I vitelloni (1953), riesce in una ironica parodia del proprio stesso mestiere, nonché in una divertente rappresentazione del maschio italiano bugiardo e approfittatore: Fellini, da regista, lo sa nobilitare con una serie di inquadrature dal basso che, del personaggio, esaltano sia la predominanza psicologica sulla protagonista femminile, sia la boria assoluta e irresponsabile. Geniale, a livello di interpretazione e di scrittura, alternare alla presentazione elegante del divo una parlata spiccatamente romanesca e volgare.

Ultimo elemento fondamentale del film, la colonna sonora di Nino Rota, compositore per tutte le pellicole di Fellini fino alla propria scomparsa: la musica orchestrale, canonica e melodrammatica in vari passaggi narrativi, diventa straniante, quasi da circo, nel corso delle numerose gag comiche presenti nel film. A questa su accompagnano i motivi musicali diegetici, fra cui spicca la marcia dei bersaglieri che sottolinea l'affanno del protagonista e interagisce con lui nella narrazione.

Dove la tecnica del film risulta, non solo e non forzatamente per limiti materiali e cronologici, più carente è nel montaggio infelice di Rolando Benedetti, dovuto alla produzione (l'esempio più lampante è l'inserimento dell'intervallo a tagliare le scene, tipico del tempo ma qui particolarmente fastidioso), e nella tecnologia audio, difetto da alcuni critici attribuito anche al Fellini a venire. Del quale, ne Lo sceicco bianco, sono visibili solo i prodromi di ciò che sarà: tuttavia il realismo coniugato allo sguardo magico, quasi bambinesco, del regista riminese è qui già tangibile.

A cura di Michele Piatti.
Pubblicato il 25 gennaio 2020.

Pro:

  • Tocco autoriale di Fellini già visibile, per quanto ancora non maturo, in alcune scene caratterizzate da espressionismo e surrealismo.
  • Sceneggiatura ironica e esplicativa dei tempi, ben resa nei suoi archetipi dal cast.
  • Musiche che interagiscono direttamente con la narrazione, accentuandone gli aspetti paradossali.

Contro:

  • Montaggio, per quanto limitato dalla tecnologia disponibile, in alcuni passaggi non ben concepito.
  • Alcune ingenuità di scrittura che abbassano un livello di originalità potenzialmente alto (ma comunque ben rese da un cast tecnico e artistico, si tenga presente, ancora agli esordi).

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