Dispersi nella Tokio dei primi anni del nuovo millennio, Bob e Charlotte si incontrano e cercano insieme di trovare un modo per ingannare la solitudine.
Dispersi nella Tokio dei primi anni del nuovo millennio, Bob e Charlotte si incontrano e cercano insieme di trovare un modo per ingannare la solitudine.
Secondo lavoro alla regia per Sofia Coppola (Il Giardino delle Vergini Suicide, 1999; Marie Antoinette, 2006), ambientato in una Tokio alle origini della globalizzazione, Lost in Translation è un delicato racconto di solitudine e dispersione.
La sceneggiatura emana un'intensità che varia nella sottile linea che divide la fragilità dalla solitudine; i personaggi non rivelano quasi mai i loro stati d'animo, ma riescono a trasparire grazie a una pensata fotografia, ai dialoghi, spontanei e semplici, fino ai silenzi e ai sospiri degli stessi protagonisti.
Una sceneggiatura e una regia che quindi lavorano su un piano di sottrazione, spogliandosi di virtuosismi e sperimentazioni per concentrarsi più su un piano intimo e di vulnerabilità ma, se per il lavoro di scrittura questo metodo sembra funzionare, la regia potrebbe risultare piatta ed eccessivamente accademica.
Il requisito di intimità e naturalezza è dato anche dalla scelta della regista di girare il film in sequenza, esattamente come la storia procede, per dare la possibilità agli attori di adattarsi perfettamente al divenire dei loro personaggi.
Tokyo, silenziosa coprotagonista, non funge solo da contorno alla storia, ma fornisce una chiave di lettura interessante, un paradosso tra una città dinamica e in continuo movimento in cui però i protagonisti si trovano completamente persi e isolati.
Anche l'ambientazione dell'albergo, che si pone come una scatola in cui i protagonisti preferiscono nascondersi, è pensata nel dettaglio e regala una buona fotografia, tra grandi vetrate e le figure dei personaggi che cercano di adattarsi alla vita che scorre al di fuori.
Come già accennato, la fotografia è ottima, sia negli interni che nelle scene in città, con un lavoro sui cromatismi altrettanto ottimale, che ricordano il più recente Lei. L'aspetto visivo però non è il solo collegamento con la pellicola di Spike Jonze (Essere John Malkovich, 1999), Lost in Translation e Lei infatti rappresentano la duplice visione della stessa situazione di solitudine e di separazione che Jonze e Coppola hanno provato in prima persona, essendo stati sposati dal 1999 e 2003.
Per quel che riguarda le musiche, il risultato è dimenticabile: nel tentativo di conciliare gli aspetti prima drammatici e poi commediali, la resa è confusa e priva di espressività.
Le performance dei protagonisti devono dunque compensare la mancata atmosfera e interiorizzazione delle musiche, e ci riescono perfettamente, lavorando anch'essi sulla semplicità ed essenzialità che dominano la pellicola.
In conclusione, Lost in Translation cerca di affermarsi come una pellicola che vuole far emergere la solitudine e il rapporto dei due protagonisti, in tutta la loro semplicità; lasciando da parte alcuni aspetti tecnici come la regia o le musiche. È dunque importante, per riuscire a leggere appieno il significato intrinseco del film, trovare il tempo di guardarselo in silenzio e in piena solitudine.
Caricamento modulo