Diario della crisi esistenziale e sentimentale di uno scrittore nella Manhattan di fine anni Settanta.
Diario della crisi esistenziale e sentimentale di uno scrittore nella Manhattan di fine anni Settanta.
Il cinema nasce come fenomeno prettamente metropolitano nella Francia di fine Ottocento, e fin da subito la macchina da presa sembra lo strumento più indicato per cogliere il movimento, le luci e la complessità delle metropoli. Lo sa bene Woody Allen, forse l'autore la cui creatività è più inscindibilmente legata alla dimensione cittadina, in particolare newyorkese (non gli mancano, fatta purtroppo eccezione per la nostra Capitale, piacevoli escursioni filmiche europee). Manhattan è il titolo dell'opera, vera protagonista della storia e al contempo unico punto fermo della vita del protagonista: fra gli attici e i parchi della quale le relazioni umane, gli errori e le meschinità si consumano e trovano vera ragione di nobiltà proprio nell'essere ambientati nella più importante metropoli del mondo. Quello di Allen per New York è un amore viscerale, tanto da ritornarci nell'ultima, riuscita commedia, Un giorno di pioggia a New York (2019). Non sono poche le sequenze che testimoniano l'amore di Allen per la propria città, e ritentano tutte fra le migliori, a livello registico, del film e forse dell'intera carriera dell'autore: l'overture con lo Sky-line, la voce fuori campo e la musica di George Gershwin ferma il tempo del racconto per trasformarsi in attimo di puro cinema, inteso come arte del mostrare.
Effettivamente, ciò che colpisce innanzitutto della regia e della scrittura di Manhattan è la compattezza stilistica: Allen sembra qui raggiugnere una maturità cercata da almeno un decennio, un equilibrio che, nato dalle prime commedie demenziali, è passato attraverso i piegamenti del mezzo e le sperimentazioni metacinematografiche di Io e Annie (1977). Manhattan è un punto di svolta della sua carriera, il momento di passaggio verso drammi più complessi e anche l'esaltazione di se stesso come centro nevralgico di un mondo di relazioni. Per questo motivo, forse, è proprio il personaggio di Isaac a rivelarsi il più antipatico, squallido e difficilmente sopportabile: le ossessioni meschine, fastidiose proprio per la loro assenza di dramma, del protagonista sono messe a nudo e contrastano perfettamente sia con la magnificenza della città che con la profonda maturazione di un altro personaggio, Tracy (forse fra le figure femminili alleniane migliori). Nemmeno in Harry a pezzi (1997) l'alter ego di Allen sarà così irritante.
La regia, si è detto, è perfetta. Allen già qui sviluppa una delle sue peculiarità, spesso ignorata da chi lo ritiene più un artista della parola che non dell'immagine ma che, curiosamente, si è fatta evidente soprattutto nei lavori degli ultimi due decenni a fronte di una qualità di scrittura più altalenante: il posizionamento dei punti macchina e i carrelli, adatti sia agli ariosi ambienti interni, sia alle amore strade di New York.
Ereditando l'invisibilità dai classici americani, la cinepresa interroga i personaggi e li lascia parlare, sacrificando forse il montaggio ma rendendoli chiari ed evidenti al pubblico.
A onor del vero, il merito visivo è condiviso con il bianco e nero raffinato di Gordon Willis, Oscar alla carriera nel 2010, collaboratore stretto di Allen e DOP, fra gli altri, de Il padrino (1972). Le scene di silhouette al museo e la sequenza della pioggia a Central Park figurano fra i momenti più felici, esteticamente ed emotivamente, dell'intero film.
La sceneggiatura raggiunge un grado di complessità psicologica e di personaggi che, in Io e Annie, era più lineare. Il personaggio di Diane Keaton, qui decisamente più oscuro e respingente, sembra scritto in opposizione e continuità con l'eponima Hall del film precedente. Spesso ad Allen si attribuisce una tendenza narcisistica, intellettualizzante e fine a se stessa nei dialoghi: per quanto quest'affermazione sia assolutamente ingiusta (una carriera di quasi una sceneggiatura all'anno dal 1965 ad oggi non si riassume in una frase), in Manhattan effettivamente sono svariate le battute gustosamente, provocatoriamente sofisticate e idiosincratiche. Molte delle quali sono così irrimediabilmente legate all'ambientazione e al contesto – la New York degli intellettuali liberal, sofisticati, alternativi per gioco – da rischiare di invecchiare con esso: Manhattan è una storia talmente invischiata con il mondo che racconta da non riuscire sempre a distaccarsene. Al contempo, forse questo è il miracolo del film, ne e fra le più spietate e sincere critiche. Chi ama Allen vi ritroverà l'umorismo yiddish, la spigliatezza dei dialoghi e il cinismo autocompiaciuto, invece lo detesta ne ricaverà dialoghi al limite del sopportabile: anche in questo Manhattan è radicale.
Delle interpretazioni, oltre ad Allen come miglior interprete di se stesso e una Keaton meravigliosa, si segnala la sorprendete e giovane Hemingway. La colonna sonora, invece, è fra le non originali più celebri della storia del cinema. Woody Allen in versione newyorkese è qui ai propri massimi livelli: Manhattan chiude in decennio in ascesa per aprirne uno più complesso ma spesso poco considerato. Amato e odiato, la lezione di Allen arriva tuttavia alla commedia sofisticata contemporanea, che ha visto in Storia di un matrimonio (2019) di Noah Baumbach l'esempio più noto e migliore, che risolve a livello di scrittura i limiti del maestro. Anche qui, peraltro, New York ha un ruolo non certo marginale.
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