Herman J. Mankiewicz è alle prese con la sceneggiatura di quello che poi diventerà Quarto Potere, tra alcolismo, politica e industria hollywoodiana.
Herman J. Mankiewicz è alle prese con la sceneggiatura di quello che poi diventerà Quarto Potere, tra alcolismo, politica e industria hollywoodiana.
Sei anni dopo il suo ultimo lungometraggio Gone Girl (2014), David Fincher sbarca su Netflix con un titolo che ha poco a che vedere con il resto del catalogo della piattaforma. Si tratta di Mank, un biopic drammatico sulla figura di Herman J. Mankiewicz e la lavorazione di Quarto Potere (1941), basato su una sceneggiatura ideata negli anni '90 da Jack Fincher, il padre defunto del regista. La pellicola si presenta tuttavia assai diversa da una semplice biografia, rivelando pressoché immediatamente i suoi veri intenti: raccontare la vecchia Hollywood anni '30, le sue contraddizioni, le sue luci e ombre, le influenze politiche che si insinuano in essa e l'importanza del denaro prima dell'arte.
Fincher ne approfitta per omaggiare la figura dello sceneggiatore (artista in generale, suo padre in primis) e celebrare il Cinema classico, evitando l'effetto nostalgia grazie a una satira talvolta spietata.
Ciò che sorprende nella sceneggiatura sono infatti i dialoghi taglienti del personaggio di Mank, con i quali si è in grado di smontare sia il mito della storia di Hollywood (massimizzato con il tragico suicidio di Shelly, collega di Mank), sia del giovane prodigio Welles che l'industria l'ha combattuta. Lo sviluppo della trama cita apertamente Quarto Potere (1941) nella struttura, con lunghi flashback, ma, al di fuori dei dialoghi e di una splendida caratterizzazione della figura dello sceneggiatore Mankiewicz, lo script non regala altri grandi spunti narrativi. Il finale è eccessivamente affrettato, con un climax debole per una scena come quella di Mank ubriaco nel castello di William Hearst, artificiosa e romanzata, e la delineazione dello stesso Hearst, che poi diventerà in parallelo il protagonista Orson Welles in Quarto Potere, risulta poco approfondita. Nel complesso tuttavia la sceneggiatura risulta funzionale nel tratteggiare le interazioni dei personaggi coinvolti, un lavoro complesso e fondamentale per autenticare le vicende prima e dopo la conclusione del famoso script del capolavoro wellesiano.
La totalità della messa in scena (sonoro compreso) è forse la più grande virtù della pellicola, nella quale ogni componente tecnica, o quasi, eccelle e si amalgama a tal punto da proporre un modello di estetica invidiabile, evocando minuziosamente le atmosfere della vecchia Hollywood. La regia si distanzia dal modus operandi del regista (Fight Club, 1999; Zodiac, 2007) optando per movimenti controllati, eleganti, intenti a omaggiare ora il noir anni '40, con l'impiego di particolari luci e ombre, ora di nuovo Quarto Potere, prediligendo specifici piani sequenza e certi punti macchina dal carattere barocco. L'uso del bianco e nero in fotografia massimizza il coinvolgimento dello spettatore all'interno dell'epoca proposta, giocando con punti luce simil-Gregg Toland e sovraesponendo i costumi di alcuni protagonisti, conferendo al film sia il tipico glamour anni '30 sia quella connessione meta-cinematografica singolare. I graffi e la grana post-prodotti cercano di sporcare un'immagine digitale nitida e patinata, forse l'uso della pellicola avrebbe giovato maggiormente agli scopi evocativi del regista, ma è un discorso che in questo caso appare completamente pleonastico. La distribuzione via streaming, talvolta, può non permettere allo spettatore di valutare in modo chiaro e pienamente fruibile la tecnica del film, né in campo sonoro né visivo; per questo motivo risulta veramente complesso giudicarlo da questo punto di vista.
A prescindere dalla mancata uscita in sala, la produzione di Mank si rivela valida anche nel resto delle sue parti. I costumi e la colonna sonora (questa per mano di Reznor e Ross, The Social Network, 2010) sono entrambi conformi con l'epoca presentata e paiono vitali per trascinare lo spettatore nel cuore degli anni '30; le scenografie invece richiamano con forza Quarto Potere, in modo da stringere maggiormente il legame fra i personaggi di entrambe le pellicole, prima ancora che questo venga esplicitato nella storia. A concludere vi sono le splendide interpretazioni di tutto il cast, tra tutti spicca la performance magistrale di Gary Oldman (Dracula di Bram Stoker, 1992), protagonista indiscusso, supportato da altrettante ottime prove attoriali: un ingombrante Welles, un avido Mayer e una incantevole e subdola Marion Davies, interpretata da Amanda Seyfried (First Reformed, 2017).
Mank non è un biopic lineare adatto a ogni genere di spettatore; David Fincher confeziona un prodotto che sprigiona cinefilia da tutti i pori, pregno della cultura sociopolitica del Cinema del passato, e ne fa una sontuosa opera post-moderna, citazionista, in bianco e nero, e pungente nel criticare con fermezza un sistema meschino e immorale che continua, dopo quasi 100 anni, a dominare il panorama cinematografico contemporaneo.
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