Un hacker scopre che tutto ciò che circonda il genere umano è frutto di una simulazione artificiale perpetrata da macchine intelligenti. La Resistenza individua in lui l'Eletto destinato a salvare l'umanità.
Un hacker scopre che tutto ciò che circonda il genere umano è frutto di una simulazione artificiale perpetrata da macchine intelligenti. La Resistenza individua in lui l'Eletto destinato a salvare l'umanità.
Matrix, uscito nel 1999 per mano di due autrici quasi esordienti, riesce in una sola mossa a raggiungere almeno quattro obiettivi: consacrare il mito di Reeves come interprete; dare vita a uno dei franchise transmediali più innovativi della Storia del cinema; portare a Hollywood quel tipo di fantascienza cyberpunk che già nell'Arcipelago nipponico era stata affrontata da Mamoru Oshii con il primo Ghost in the shell (1995); confezionare un prodotto tanto di entertainment e commerciale quanto significativo dal punto di vista filosofico. Alla base di Matrix è infatti il noto dubbio cartesiano, grossomodo riassumibile in un interrogativo di verità ontologica sul mondo in cui, e sul corpo attraverso cui, agisco. Renée Descartes non è certo l'unico filosofo ad averne trattato: il problema risale a Platone con il mito della caverna de La Repubblica (V sec. a.C.) e arriva ai giorni nostri. Nella letteratura accademica, soprattutto anglosassone e di stampo analitico, si preferisce spesso usare l'espressione «Matrix» in luogo di qualsiasi riferimento ai classici della letteratura. Al di fuori dell'accademia, numerose sono le interpretazioni più o meno legittime della vicenda di Neo: chi l'ha letto in chiave cristologica, chi come metafora della transessualità (confermata dalle autrici), chi ancora come riflessione meta-mediale sul confine fra supporti narrativi e potenzialità finzionali delle nuove tecnologie. Il vero miracolo di Matrix, tuttavia, è la capacità di prescindere da qualsiasi lettura complessa o profonda: a guardarlo come un semplice film d'azione fantascientifica, non perderebbe nessuno dei propri pregi. Il suo impatto è stato dirompente per l'intero immaginario pop: il significato semiologico di certi modi di dire, di certi vestiari e metafore non è stato più lo stesso.
La sceneggiatura di Lana e Lilly Wachowski, come si è anticipato, gode di modelli nobili: oltre al Platone mitografo, all'immaginario delle Sacre scritture e a scrittori e mangaka cyberpunk, non è sbagliato rinvenire riferimenti a Lewis Carroll, di cui viene citato il suo Bianconiglio. Lo scheletro narrativo solo apparentemente semplice, basato sul binomio di mondi e sul destino di Neo evidente fin dall'inizio, riesce a stupire di continuo con invenzioni ed espedienti in un continuo alternarsi di archetipi reinventati e immaginario di fine millennio (le linee del telefono e i cavi che, visti oggi, rimandano davvero a una civiltà antecedente la tecnologia wireless). Dialoghi e situazioni sono abbastanza disorientanti da movimentare la visione senza renderla inutilmente complessa.
L'efficacia è quella dei classici, che non perdono mai il proprio smalto a decenni di distanza, e delle fiabe di carattere eroico.
A tal proposito, per provare quanto la sceneggiatura sia effettivamente architettata alla perfezione, in Matrix si ritrovano, ben inseriti, gli elementi de Il viaggio dell'eroe di Christian Vogler: l'eroe abbandona la propria terra d'origine proprio come Thomas/Neo scopre la realtà dietro la finzione; il suo viaggio lo porterà ad acquisire nuove doti e a incontrare mentori (Morpheus), antagonisti-ombra tanto opposti quanto simili a lui (l'agente Smith) e aiutanti (Trinity). La storia si risolve in un finale aperto capace di interessanti potenziali sviluppi: al di là della riuscita dei successivi capitoli della saga, in Matrix si è davvero creato un (doppio) mondo con le proprie regole, gli ambienti riconoscibili e i caratteri distintivi. Unico difetto della sceneggiatura, l'espediente del bacio fra Trinity e Neo, che soprattutto visto oggi risulta alquanto banalizzante.
Regia delle sorelle Wachowski prossima alla perfezione, soprattutto nel suo coordinarsi con gli effetti speciali della squadra di John Gaeta, curatore dell'intera trilogia. Questi, risultati all'epoca incredibili, sono tuttora fonte di ispirazione e imitazione anche parodica: se nei successivi capitoli il comparto visivo sembra preda di un horror vacui, per cui molto spesso gli effetti sovrastano in maniera bulimica le necessità narrative, qui tende invece, pur non rinunciando alla spettacolarità, a indagare le potenzialità e le caratteristiche del mondo di Matrix. La rappresentazione del cyberspazio, di per sé entità complessa da rendersi visivamente, è condotta alla perfezione. Alla riproposizione di una certa estetica tipica della fantascienza derivata da Blade runner (1982) si aggiungono una rappresentazione vagamente queer e alcune trovate degne di nota: la più efficace, nella sua semplicità, è la colorazione verde ad indicare le ambientazioni in Matrix, ad opera del direttore di fotografia Bill Pope (Alita – Angelo della battaglia, 2019). Il comparto tecnico e visivo trova il proprio merito maggiore nel saper dialogare, influenzando e venendo influenzata, con le estetiche e le narrazioni digitali dei videogiochi e di altre tecnologie informatiche, facendo di Matrix una vera opera di svolta, capace di oltrepassare i confini del mezzo cinematografico.
Sarebbe scontato sottolineare le ottime interpretazioni: non solo per l'iconica freddezza di Weaving, la presenza scenica di Fishburne e le capacità empatiche di Reeves, ma anche per dimestichezza di tutto il cast di recitare in uno scenario produttivo totalmente rivoluzionario. Malgrado qualche ingenuità su cui inevitabilmente ha pesato il trascorrere del tempo, Matrix è davvero un testo che ha cambiato gli occhi dello spettatore e la sua posizione rispetto all'oggetto cinematografico.
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